1. Introduzione
Una vicenda drammatica come quella del sisma che ha colpito l’Abruzzo nello scorso mese di aprile, pur presentando come tutti gli eventi luttuosi una specifica singolarità, non può essere letta e affrontata a prescindere dai precedenti che pure, sotto forma di semplici spot, sono stati introdotti nel confronto pubblico apertosi all’indomani del terremoto.
Il libro di Giovanni Pietro Nimis, “Terre mobili Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo”, edito da Donzelli, ha il merito di offrire al dibattito ancora in corso sulla ricostruzione post-terremoto, un utilissimo termine di confronto, anche e soprattutto perché, come ogni buon libro, contiene delle tracce che conducono a lavori precedenti nei quali le vicende cui si fa cenno, ed in particolare quelle del Friuli, sono illustrate con la cura di chi ha partecipato direttamente a quell’opera di ricostruzione e nello stesso tempo con lo spirito critico e l’acume di un osservatore che sa vedere nelle pieghe dei meccanismi utilizzati in quell’occasione.
2. La ricostruzione del Friuli secondo Nimis
Nella premessa del libro l’autore prende posizione rispetto al dibattito sulla ricostruzione dicendo “che nessuno dovrebbe immaginare (l’Aquila) diversa da com’era e dov’era l’antica città. Da come è esistita, e dove è sempre rinata” e riconoscendo la legittima rivendicazione dei sindaci dei quarantanove Comuni colpiti di “determinare il destino del loro territorio”. Ma nello stesso tempo, la rilettura delle vicende del Friuli – additate da quanti hanno criticato e criticano maggiormente l’approccio seguito dal governo in carica come il modello virtuoso da seguire – offre degli elementi di sicuro interesse almeno su due aspetti: lo slogan dov’era, com’era e la delega ai Comuni per la gestione dei fondi della ricostruzione.
La ricostruzione in nome del “ dov’era, com’era”
Sul primo aspetto e sulla copertura integrale della ricostituzione del patrimonio edilizio esistente, Nimis evidenzia come la garanzia dell’indennizzo sia stato uno strumento fondamentale per l’acquisizione e la conservazione del consenso popolare proprio perché – come scriveva nel 1995 lo stesso autore – “forniva una felice metafora a espressioni più disinvolte per pretendere da parte di ognuno la ricostituzione integrale del proprio patrimonio, osservando la sapiente regola del chiedere tanto per ottenere abbastanza”. Ma nello stesso tempo – per la sua esasperata aderenza al senso comune – non ha reso possibile alcuna correzione alle tendenze insediative in atto che avevano portato all’abbandono dei centri storici a vantaggio della diffusione di case unifamiliari nel territorio aperto. A questo proposito, Nimis dice che la ricostruzione friulana può essere considerata la più economica delle ricostruzioni solo perché è l’unica effettivamente compiuta e valutabile nel complesso, ma non “perché non abbia registrato degli sprechi a livello di territorio, e non sia andata esente da qualche aberrazione, come il recupero generalizzato, a tappeto, di ogni preesistenza, compresi i casolari montani abbandonati”.
La delega ai Comuni per la gestione dei fondi della ricostruzione
A questo aspetto è connesso il secondo elemento richiamato precedentemente, quello della delega ai Comuni, che a giudizio dell’autore ha fatto sì che quest’ultimi limitandosi a considerare, ciascuno, il patrimonio edilizio preesistente – così come rappresentato nelle planimetrie catastali – all’interno dei propri confini, abbiano finito per “pianificare su se stessi, e a riproporsi nei termini delle proprie realtà insediative”. Il risultato di questa scelta è stato che le aree esterne ai centri storici verso le quali si era disordinatamente spostata la popolazione, sono risorte con grande slancio. E a questo proposito si deve prestare la massima attenzione alle Delibere approvate dal Consiglio Comunale dell’Aquila (la 57 e la 58 del 25 maggio scorso) che liberalizzano di fatto l’attività edilizia nelle aree agricole, nelle aree a destinazione pubblica secondo il Piano Regolatore vigente, prevedendo altresì la possibilità di trasformare i manufatti temporanei in costruzioni permanenti.
L’effetto prodotto
Ritornando alle vicende friulane, l’effetto combinato, da un lato, del conferimento ai singoli proprietari del potere di iniziativa per la ricostruzione del patrimonio immobiliare – con una facoltà d’intervento comunale sostitutivo in caso di inerzia – e dall’altro di un esteso ricorso ai meccanismi partecipativi (con assemblee chiamate a pronunciarsi preventivamente rispetto alle decisioni degli stessi Consigli eletti) ha impedito una riflessione sui modi in cui il territorio era stato modificato negli ultimi decenni, facendo sì che venisse considerato come una realtà omogenea, sulla quale si proiettavano indistintamente i bisogni e le aspettative delle singole famiglie, da affrontare prestando analoga attenzione tanto ai centri consolidati come pure alle aree di formazione più recente.
A questo riguardo, tornando indietro a uno studio elaborato dall’IRES del Friuli completato e pubblicato nel 1985, a circa 10 anni dal sisma, si evidenziava come con la ricostruzione in nome del “dov’era com’era” il 50% del patrimonio edilizio preesistente fosse stato ricostruito e che di questo 50% poco più della metà (il 57%) fosse stato realizzato nel sito originario e che l’altro 43% si fosse “frantumato” in localizzazione diverse prediligendo mediamente come aree di rilocalizzazione le zone di espansione e le cosiddette “case sparse” rispettivamente nel 16.4% e nel 9,6% dei casi. Allo stesso modo in quello studio si dava conto del fatto che solo il 27,5% dei “ricostruttori” si era attenuto scrupolosamente anche al principio del “com’era” mentre circa il 50% di essi aveva sostituito la tipologia preesistente con un villino o con alloggi in immobili plurifamiliari.
A questi dati lo studio dell’IRES aggiungeva delle analisi molto dettagliate sulla consistenza del patrimonio immobiliare al termine delle quali si diceva che la ricostruzione abitativa – a fronte di una dotazione di stanze per abitante preesistente poco inferiore a 2, già largamente sottoutilizzata, e di un’ulteriore flessione demografica del 2,6% – “ha non solo riconfermato i valori preesistenti al terremoto ma li ha anche consistentemente dilatati” portando la dotazione di vani pro-capite a 2 e il numero di stanze per abitazione da 5,7 a 6. Ciò consente di dire che i contributi provenienti dalla solidarietà nazionale e il risparmio e/o l’indebitamento dei proprietari degli immobili – che hanno alimentato in misura equivalente questo sforzo – abbiano finito per trovare rifugio nel bene casa operando, da un lato, un ulteriore irrigidimento del mercato immobiliare e dall’altro un immobilizzo improduttivo di una parte significativa di quelle risorse, incidendo non solo sulla struttura fisica del territorio. A 20 anni dal sisma infatti “nell’area ricostruita – scriveva Nimis nel libro “La ricostruzione possibile” – la disoccupazione è incalzante e si è acuito il nodo immanente, essenzialmente economico, del sottosviluppo” Conseguenza da prevedere “alla fine di un boom edilizio artificiale che – per eccesso di concentrazione spaziale e temporale – avrebbe, invece di consolidare, stravolto la base produttiva del settore” e assorbito una quota molto rilevante delle risorse disponibili e impiegabili, almeno in parte, in modo diverso.
3. La ricostruzione in Abruzzo
A chi conosce meglio queste vicende spetta il compito di integrare e/o correggere la rilettura sommaria qui proposta, per poter evidenziare gli elementi che possono rivelarsi più utili per confrontarsi con quanto è accaduto in Abruzzo.
A me, però, importa proporre qualche considerazione e un’ipotesi interpretativa consapevolmente azzardata e ottimistica su una parte dello sforzo e le scelte compiute finora – forse non adeguatamente presa in considerazione neanche dagli stessi responsabili – dicendo preliminarmente che le discontinuità rispetto alle esperienze precedenti (note ai più) non possono essere attribuite soltanto al fascino – dal quale probabilmente il Presidente del Consiglio in carica pure non è esente – esercitato da ricostruzioni illustri del passato, che come dice lo stesso Nimis, “furono espresse nell’ambito di un Potere che aveva la facoltà di rappresentarsi attraverso di esse” anche perché il capo del Governo è ben consapevole che “le nostre istituzioni non hanno simile facoltà e il consenso – su cui si regge il sistema – costituisce una cambiale a troppo breve scadenza”.
L’impostazione scelta, in particolare con la realizzazione dei famigerati Complessi Antisismici Sostenibili e Ecocompatibili (C.A.S.E.) non sembra rispondere soltanto all’esigenza di catturare il consenso offrendo una sistemazione agli sfollati diversa, “meno precaria” di quanto fatto in precedenza, ma può essere letta, in una certa misura, come una sorta di tradimento o comunque di contraddizione (a mio avviso felice) rispetto al pensare e all’agire del Presidente del Consiglio in carica.
Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare il capo dell’esecutivo – lo stesso che spera e opera affinché ciascuno possa ampliare la sua abitazione – non si è preoccupato prioritariamente di utilizzare i soldi disponibili (non molti per la verità) per concedere ai proprietari di prime come pure di seconde case l’indennizzo per avviare una ricostruzione “fai da te” del patrimonio edilizio colpito o comunque rispondere autonomamente alle loro esigenze. Si è impegnato, piuttosto, nella realizzazione – per l’accoglienza degli sfollati – di complessi di case su aree pubbliche ovvero da acquisire mediante l’espropriazione. Ciò fa sì che i Comuni, una volta usciti da questi anni tremendi, avranno quel che gli urbanisti annoverano ormai tra le dotazioni territoriali indispensabili: case e aree urbanizzate intorno alle quali organizzare un’idea, possibilmente non solo municipalista, del proprio sviluppo e del proprio modello socio-economico.
Tutto ciò appare ancor più credibile e meritevole di considerazione valutando la natura e le caratteristiche dell’area colpita da sisma. È infatti noto a chi si occupa dei territori considerati “deboli” che la migliore strategia “sviluppista” per ambiti come l’entroterra e la montagna abruzzese – già alle prese con una situazione di grave marginalità economica – non sia rappresentata dall’incentivazione diffusa alla localizzazione di attività produttive, dall’infrastrutturazione hard del territorio e da una fiscalità di vantaggio che premii essenzialmente la base produttiva dei territori. Questi sono strumenti del vecchio riequilibrio – anche se riproposti sotto nuove denominazione come, per esempio, quella di zona franca urbana – concepiti come se i territori fossero esclusivamente delle grandi fabbriche o comunque degli spazi in cui le imprese si localizzano soltanto per produrre, e non per vendere beni o servizi alle persone insediate, beneficiando dunque anche e soprattutto di una qualità insediativa e di una vitalità diffusa dell’ambiente che li circonda.
Per questo motivo ragione è ragionevole pensare che non occorra tanto una zona franca con la quale assicurare al territorio colpito una rilocalizzazione agevolata di imprese, attività economiche con manufatti e insediamenti per attività produttive connessi, come se lo sviluppo dell’Abruzzo e delle sue aree interne in modo particolare – con le loro caratteristiche morfologiche, i tassi di natalità e la rilevantissima quota di territorio compreso in parchi e riserve di interesse nazionale oltre che regionale – possa passare per un rilancio produttivo “assistito”. Si tratterebbe della riproposizione di una forma di sostegno – alla quale chiederanno di avere accesso altre aree interne dell’Abruzzo che pure lamentano un processo di desertificazione “produttiva” e industriale – la cui efficacia non può non essere messa in dubbio dalla lunga teoria di capannoni e aree produttive sulle strade provinciali e statali della regione che gli sgravi e i contributi più o meno recenti, una volta venuti meno, hanno lasciato in eredità.
4. Un modello da seguire di community re-building e community empowerment
Una riorganizzazione del modello socio-economico – e un aumento complessivo della qualità e della quantità dei beni e delle prestazioni resi alle persone prima che alle imprese – costituisce il vero fattore strategico per lo “sviluppo” delle aree marginali e lo è, ancor di più, per il territorio colpito dal sisma del 6 aprile scorso. All’interno di un processo organizzativo di questo tipo la modulazione della politica abitativa costituisce un elemento centrale al pari della definizione di una rete di welfare di prossimità appropriato ed efficace.
Ecco perché non si può non evidenziare il fatto che grazie a questa scelta – a parte il dibattito sulla paternità delle case già consegnate – i Comuni e le collettività colpite potranno contare, con tutti gli scongiuri e le cautele del caso, non solo su strade e attrezzature rifunzionalizzate e modernizzate, ma su una dotazione territoriale in più. Il patrimonio di aree e di case, predisposto per l’accoglienza durante le lunghe fasi della ricostruzione, potrà, in seguito, diventare il capitale o meglio quella quota delle risorse pubbliche – risparmiate dalla collettività e non messe prioritariamente a disposizione della ricostituzione delle case colpite come poteva essere più conveniente in termini di consenso – sulle quali poter investire per far ripartire le comunità colpite e metterle in condizione di concepire il proprio modello di sviluppo e il proprio futuro. All’interno di esso il patrimonio distrutto e ricostruito potrà essere considerato non soltanto come una mera sommatoria di prime e seconde case ricostruite o da ricostruire, come delle vestigia ripristinate o ancora da ripristinare, ma come componente di un sistema territoriale rivitalizzato e dinamico (da rendere vitale e dinamico) e proprio per questo maggiormente capace di custodire il proprio passato.
Operando in questo modo non si scavalcano le amministrazioni e le comunità locali ma piuttosto si offre loro in forme rinnovate e appropriate una parte di quel “capitale sociale” che il sisma ha annientato. Spetta a loro – ed è un compito non semplice da svolgere – utilizzarlo al meglio mettendolo al sicuro da impieghi e sottrazioni inappropriati e costruendo su di esso un’operazione visionarie che non sia di semplice ricostruzione dov’era com’era, ma di community re-building e community empowerment.
Bibliografia
Per la ricostruzione del Friuli
Nimis G.P. (2009), Terre mobili Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo, Roma, Donzelli;
Nimis G.P. (1988), La ricostruzione possibile, Venezia, Marsilio Editori;
Fabbro S., a cura di (1985), La ricostruzione del Friuli: ricerche e studi per un bilancio della ricostruzione insediativa e della riabilitazione socio-economica nell’area colpita dagli eventi sismici del 1976, Udine, Cooperativa editoriale Il campo.
Per gli aspetti più generali connessi alle tematiche del riequilibrio territoriale, delle dotazioni territoriali e del welfare urbano
Gli esiti dei Programmi di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN) “Un piano dei servizi per il governo del territorio” e “Welfare urbano e standard urbanistici” tra i quali:
Karrer F., Ricci M., a cura di (2003), Città e nuovo welfare. L’apporto dell’urbanistica nella costruzione di un nuovo stato sociale, Roma, Officina Edizioni;
AA.VV., (2008), Il Management dei servizi urbani tra piano e contratto, Roma, Officina Edizioni;
Davezies L. (2008), La République et ses territoires, Parigi, Éditions du Seuil.