Non è un museo per tutti

La definizione ICOM di museo, elaborata durante l’Assemblea Generale di Seul, ormai risalente al 2004, fa emergere chiaramente le due funzioni primarie dell’istituzione: quella di conservare manufatti, oggetti, opere e quella di trasmettere cultura e diletto.
Dalla definizione emerge anche la stretta connessione del museo con il tessuto sociale, trattandosi di un’istituzione al servizio della società e del suo sviluppo. Proprio da tale scopo essenziale consegue il grande problema dell’istituzione museale: le grandi trasformazioni economiche e valoriali che caratterizzano gli ultimi anni impongono al museo di definire la propria identità, non più come fluttuante e autoreferenziale, ma come qualcosa che “si fa carne” e diventa brand.
Seppure molti ancora mostrino delle forti resistenze al riconoscimento dell’opportunità di un connubio tra management e cultura, in una relazione di continuo interscambio di elementi positivi tra questi due mondi apparentemente lontani, la questione della brand personality vanta già esempi di successo di pubblico formidabili, dimostrando come il museo possa comunicare perfettamente e in modo immediato la propria identità fatta di passato, presente e proiezione futura.

La definizione ICOM di museo, elaborata durante l’Assemblea Generale di Seul, ormai risalente al 2004, fa emergere chiaramente le due funzioni primarie dell’istituzione: quella di conservare manufatti, oggetti, opere e quella di trasmettere cultura e diletto.

 

Dalla definizione emerge anche la stretta connessione del museo con il tessuto sociale, trattandosi di un’istituzione al servizio della società e del suo sviluppo. Proprio da tale scopo essenziale consegue il grande problema dell’istituzione museale: le grandi trasformazioni economiche e valoriali che caratterizzano gli ultimi anni impongono al museo di definire la propria identità, non più come fluttuante e autoreferenziale, ma come qualcosa che “si fa carne” e diventa brand.

 

Seppure molti ancora mostrino delle forti resistenze al riconoscimento dell’opportunità di un connubio tra management e cultura, in una relazione di continuo interscambio di elementi positivi tra questi due mondi apparentemente lontani, la questione della brand personality vanta già esempi di successo di pubblico formidabili, dimostrando come il museo possa comunicare perfettamente e in modo immediato la propria identità fatta di passato, presente e proiezione futura.
Questo si legge chiaramente nell’intervento di Maria Cristina Vannini, che lega il brand al concetto di autenticità, fattore essenziale nel percorso di visita del fruitore, e da valorizzare, in maniera tale da intercettare e soddisfare bisogni e curiosità personali, rispondendo alle aspettative attraverso un’offerta culturale personalizzabile.

 

Nella formazione del brand giocano un ruolo chiave due elementi apparentemente coincidenti, ma in realtà ben distinti tra loro: il mondo sociale, cioè il contesto nel quale la cultura e l’offerta culturale vengono prodotte, e i destinatari, i potenziali fruitori di conoscenza, educazione e ricchezza economica, ossia quei fattori postivi che accrescono il benessere di una società.

 

È necessario aver ben presente tale distinzione nella concretizzazione dell’identità del museo.
Per fare un esempio, se ampliamo lo sguardo a contesti altri rispetto alla società occidentale industrializzata, è facile percepire come in una società di riferimento politicamente instabile ed economicamente povera, caratterizzata da una popolazione per la maggior parte analfabeta e afflitta da problemi legati alla sopravvivenza, una scorretta ponderazione del ruolo del sistema museale lo porta ad essere destinato esclusivamente a fruitori esterni, quali i turisti.

 

Sappiamo della piramide di Maslow: la cultura si colloca ai “piani alti” e per questo non ci stupiamo leggendo nelle conclusioni dello studio fatto da Silvia Floris sul sistema di biblioteche formatosi a Timbuctù, che la maggior parte della popolazione locale non ha i mezzi intellettuali per usufruire delle strutture e il suo tempo è completamente assorbito dal problema della sussistenza dei mezzi di sostentamento. L’elemento che lascia perplessi è che i manoscritti, conservati ed esposti, appartenenti alle famiglie degli indigeni da 500 anni, non vengono più percepiti come eredità sulla quale fondare la propria identità; la popolazione ha perso il sentimento di proprietà su quei beni.
Indipendentemente dall’indotto economico creato sul territorio dall’aumento del turismo, quel sistema culturale rimane slegato dalla maggior parte della cittadinanza locale.

 

Ma non dobbiamo poi andar così lontano, in quanto anche in Italia il museo è ancora percepito come un’entità inaccessibile, oggetto più di studi e ricerche che rappresentazione della realtà in cui si innesta; rimane un luogo dotato di barriere intangibili che tengono a distanza le comunità nelle quali dovrebbe radicarsi, rimanendo un bene di consumo per una fascia ristretta.

 

In passato sicuramente è stato il mezzo principale di trasmissione della cultura alla popolazione e la sua funzione di conservazione del patrimonio collettivo non viene messa in dubbio, ma nel XXI secolo si stanno sviluppando e diffondendo altre forme di condivisione e arricchimento culturale.

 

Sono forme che scendono in piazza, occupano gli spazi urbani, innescano relazioni e rafforzano il senso di comunità di una città: i festival si sostituiscono così al museo nel suo ruolo di rappresentazione del reale. Tuttavia non possiamo dimenticare l’importante funzione educativa che l’istituzione museale riveste. Se solo si sfruttasse l’opportunità di radicare il museo nel contesto in cui si è generato e che a sua volta contribuisce a formare, il sistema museale verrebbe a costituire il più forte strumento di lotta ai fenomeni di esclusione, un insostituibile amplificatore di coesione sociale per il territorio.