Il Centro di ricerca Fo.Cu.S , Sapienza, Università di Roma ha organizzato il convegno “Ri-costruzioni” con l’obiettivo di evidenziare come gran parte del patrimonio storico italiano (in particolare quello dei piccoli centri storici) sia aggredito, ormai da anni, da eventi calamitosi che portano alla sua distruzione fisica e al connesso spaesamento delle comunità. Questo numero speciale di Tafter Journal raccoglie i paper presentati in occasione del convegno.
Il convegno ha inteso affrontare l’argomento ad ampio spettro, sia dal punto di vista dei diversi tipi di disastri che provocano distruzioni e trasformazioni del territorio, quasi sempre irreversibili, sia dal punto di vista delle comunità coinvolte. La partecipazione di studiosi ed esperti di livello internazionale è finalizzata a guardare da angolazioni diverse, connesse alla specificità dei paesi, lo stesso problema: il disastro territoriale, la perdita della casa, lo spaesamento nei territori distrutti e la difficoltà di ricostruzione fisica e sociale, la scala territorialmente appropriata della ricostruzione.
I disastri ambientali che hanno investito i territori del nostro Paese e quelli a scala mondiale, ci hanno insegnato, e ci insegnano a seguito dell’accadimento di ognuno di questi eventi che è necessario da parte delle comunità locali riconoscere il territorio come bene comune e rivolgere ad esso le dovute cure e attenzioni a titolo preventivo.
La popolazione dovrebbe diventare sempre più responsabile del proprio territorio, sia individualmente che a livello di vigilanza di comunità, anche perché i costi dei disastri finiscono poi per ricadere sempre sulla comunità stessa in modo esteso e non solo su quella strettamente coinvolta dai fenomeni calamitosi. Ne costituisce una conferma il recente decreto legislativo 59/2012 che contempla la possibilità per le Regioni di incrementare le accise sui carburanti ai fini della ricostruzione e l’introduzione della stipula di assicurazioni degli immobili privati contro il rischio di calamità naturali (da disciplinare con successivo Regolamento), formula quest’ultima praticata anche in altri paesi come l’Indonesia, a proposito della quale il paper di Jennifer Barestein mostra formule e distinzioni tra diversi tipi di rischio.
Si pone qui un problema di compattezza e credibilità della società civile che, volendo semplificare, è connesso a questioni di DNA (che buona parte della popolazione italiana sembra aver perso ormai da anni) ma che è anche il risultato di processi formativi su questi temi, a tutti i livelli, che in Italia denuncia una notevole carenza. Si tratta di coltivare una nuova abitudine mentale, come afferma Mario Tozzi, per imparare a convivere con il rischio naturale e a rivolgersi ad attività da considerare “di routine” e non congiunturali, come la prevenzione del rischio e la “manutenzione” del territorio, termine questo che presenta grandi e gravi lacune nel nostro Paese (incapacità a rapportarsi al rischio naturale e propensione a perdere la memoria degli eventi passati, scarsa attenzione all’organizzazione della loro tracciabilità).
Per questo la prevenzione è un fattore determinante,che, unitamente agli interventi di natura tecnica, postula una cura minuta e attenta e che ci consentirebbe, come mostrato da Pietro Valentino, di risparmiare sugli elevati costi della ricostruzione fisica e sociale.
Dal quadro dei disastri, soprattutto di quelli recenti, emerge la necessità che i piccoli comuni del Paese, che rappresentano la parte preponderante delle strutture amministrative italiane(1), lavorino congiuntamente. Molti di questi sono aggrediti da fenomeni di abbandono, altri da eccessiva antropizzazione, fenomeni entrambi pericolosi per una corretta manutenzione del territorio. Non è un caso che il terremoto del cratere aquilano e quello recentissimo dell’Emilia, nonché il dissesto delle Cinque Terre, abbiano colpito molti piccoli centri con patrimonio storico anche di grande rilevanza. Da soli questi comuni non sono in grado di garantire i territori e le relative popolazioni, autoctone e immigrate. E’ necessaria una cultura della condivisione e dell’associazionismo che, peraltro, recentemente ha cominciato a diffondersi, soprattutto per la gestione di alcuni servizi. La legge 122 del 2010 ha recepito alcune pratiche portate avanti dalle amministrazioni e ha tentato di portarle a sistema in contesti più complessi e integrati.
L’art.14, commi da 25 a 31, del D.L. n. 78/10, convertito in legge n. 122/2010, introduce per i piccoli comuni, l’obbligo della gestione associata dell’esercizio delle funzioni fondamentali, incidendo sull’assetto funzionale e organizzativo degli enti interessati. La gestione associata deve essere obbligatoriamente esercitata attraverso convenzione o unione per i comuni con popolazione fino a 5 mila abitanti. Le funzioni sono obbligatoriamente esercitate in forma associata da parte dei comuni appartenenti o già appartenuti a comunità montane, con popolazione stabilita dalla legge regionale e comunque inferiore a 3000 abitanti. La Regione, nelle materie di cui all’art. 117, commi terzo e quarto della Costituzione, dovrà individuare con propria legge, la dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata da parte dei comuni con dimensione territoriale inferiore a quella ottimale, delle funzioni fondamentali.
Le funzioni individuate sono sette, da raggiungere attraverso varie traguardi temporali (fino al 2014) e tra queste compaiono: viabilità e trasporti, gestione del territorio e dell’ambiente, settore sociale.
Nelle ricostruzioni post disastro, alcuni comuni dell’aquilano, in particolare quelli del comprensorio della neve (Rocca di Cambio, Rocca di Mezzo, Ovindoli, Lucoli), hanno formato un’area omogenea in base alla condivisione di obiettivi e di strategie; l’autoapprendimento in queste gravi situazioni ha spinto l’associazionismo dal basso con una scelta autonoma (non individuata dall’alto) che volgerà anche alla risposta per la formazione di un’unione di cui alla legge citata(2).
In sostanza, sarebbe opportuno procedere sulla strada di una prevenzione che diventa percorso attivo e continuo in stretta coniugazione con l’economia locale, facendo della prevenzione oltre che un momento per prevenire la pericolosità e ridurre la vulnerabilità, un’occasione per produrre innovazione. La storia ci ha dato anche qualche esempio in proposito; il paper di Lucia Trigilia sui cantieri di Gagliardi nel Val di Noto illustra come questo possa essere possibile: il discorso sull’innovazione in architettura strettamente correlato anche con la visione urbana e un’evoluzione progettuale complessa (impianti planimetrici e prospetti).
La dimensione di area vasta e di unificazione dei soggetti amministrativi rileva anche il fatto che è ormai matura l’acquisizione che centro storico non sia solo l’insieme dei singoli edifici di cui è composto il borgo, non sia solo l’aggregato edilizio (concezione che comunque rappresenta già un passo avanti rispetto all’identificazione del centro storico con i suoi monumenti) ma sia piuttosto l’organismo urbano e il suo territorio ed è proprio su questa scala che la prevenzione deve trovare il suo contesto di riferimento. Non è un caso che recentemente il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ha redatto con un gruppo di esperti lo “ Studio propedeutico all’elaborazione di strumenti d’indirizzo per l’applicazione della normativa sismica agli insediamenti storici”(3). Su questa linea si stanno muovendo anche alcune ricerche della Sapienza(4). In tali contesti, la definizione e la progettazione di spazi utili per la prevenzione ma anche per reinventare servizi e paesaggio è vitale, e anche qui la storia insegna, è ancora il caso del Val di Noto.
Ritrovare l’unità tra centro storico e territorio è anche l’obiettivo del “Piano integrato di ricostruzione economico-sociale per le Cinque Terre”, illustrato negli interventi di Daniele Moggia e Francesco Marchese, costruito in seno a un Laboratorio in cui si è inteso giungere alla definizione concertata di due o tre progetti pilota che si prefiggono l’obiettivo di una gestione attiva del suolo capace di creare valore aggiunto per il paesaggio e di prevenire i rischi del dissesto idrogeologico e degli incendi. Tali progetti dovrebbero perciò orientarsi al recupero di terreni olivicoli e viticoli in stato di abbandono e all’attuazione di una costante cura del patrimonio boschivo.
Qui è forse opportuno richiamare il binomio “ricostruzione-reintegrazione,”contesto di non facili scelte, là dove Donatella Fiorani intende per “ricostruzione” il trasferimento degli abitati e per “reintegrazione” un’attenta operazione di ricucitura dell’esistente nell’ottica del rispetto e della rivalorizzazione delle identità locali, dove non sono solo gli edifici a essere posti in primo piano, ma sono gli edifici insieme agli animali, all’approvvigionamento alimentare, alla disoccupazione. Anche in questo caso analogie possono essere riscontrate con i casi esteri, come nello Sri Lanka, il rapporto con gli animali, che è un rapporto di produzione, può saltare nel caso di rialloggiamento fuori sito.
In questo quadro, il convegno evidenzia le problematiche della ricostruzione, dei soggetti dedicati e del ruolo dei proprietari privati, come ad es. in Indonesia, dove viene messa in luce la rilevanza del coinvolgimento della comunità, pena il rischio che le case ricostruite vengano “rifiutate” e alla fine offerte a soggetti terzi.
Alcune immagini che si sono viste nei giorni del terremoto che ha colpito l’Emilia sono toccanti: una grande tela dipinta salvata dai pompieri, le forme di formaggio nei capannoni terremotati, la torre dell’orologio sono tutti oggetti di patrimonio comune, di un contesto che occorre ripianificare verso un futuro; noi ci sentiamo coinvolti in questo processo in cui la formazione può essere piegata alla costruzione di un avvenire per la società, dove ognuno possa dare senso al proprio futuro insieme agli altri: si può così utilizzare al meglio la parola con cui Hirochi Ouchi conclude il suo paper: KIZUNA (uniting people). In questo senso, la memoria e la tracciabilità, cui prima si accennava, costituiscono la traccia del passato senza la quale il futuro è impossibile(5).
Note
(1) I comuni entro i 5000 abitanti costituiscono il 70,23% dei comuni italiani e sono ben 5.683, con una popolazione pari al 17,1%.
(2) Cfr. Convegno “Governare il rischio. La ricostruzione nei piccoli comuni abruzzesi”, Roma, Facoltà di Architettura,14 maggio 2012.
(3) Il documento è disponibile sul sito http://www.cslp.it/cslp/
(4) Prof. Massimo Olivieri e Prof.ssa Lucina Caravaggi che stanno lavorando rispettivamente sull’Umbria sull’area omogenea della neve in Abruzzo.
(5) Nel suo ultimo libro, Marc Augé insiste sulla differenza tra avvenire di una società e futuro dell’individuo (Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri 2012).