Introduzione
Le forme di cultura che si sviluppano nei contesti urbani tendono a mutare nel tempo e, grazie ai processi creativi attivati, cambiano la configurazione delle città e di accesso alla cultura, con trasformazioni che possono essere casuali o orientate consapevolmente. In questo senso, nelle città esistono e si stanno sviluppando con sempre maggior intensità degli spazi (auto)gestiti da persone e organizzazioni che costruiscono nuovi significati sociali ed economici attraverso pratiche alternative nei campi della creatività e della cultura. Questi luoghi rappresentano un patrimonio significativo nella catena del valore del sistema produttivo locale e una risorsa nei processi di capacitazione(1) dell’individuo e della società.
Un recente studio dell’ISTAT sul Terzo Settore mostra evidenze strutturali, con 301.191 unità attive (+28% rispetto al 2001), 680.811 addetti, 270.769 il numero di lavoratori esterni, 5.544 i lavoratori temporanei e 4.758.622 i volontari(2). All’interno di questa dimensione vengono conteggiati anche i centri indipendenti di produzione culturale(3), definizione mutuata e che continua un’indagine avviata dal GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti su scala nazionale per studiare esperienze culturali di partecipazione e riappropriazione collettiva che, nascendo dal basso, accendono i riflettori sui territori post-industriali in cui operano, attivando nuove dinamiche di formazione dell’identità sociale e culturale dei luoghi(4).
L’obiettivo di questo studio, che verrà divulgato dal GAI nei prossimi mesi arricchito dai contributi di Enrico Bertacchini, è di definire cosa sono i centri indipendenti e quali sono gli impatti della produzione culturale in una prospettiva mono territoriale. Mettendo le persone al centro del processo di creazione e valorizzazione del patrimonio culturale, questi centri pare offrano la possibilità di leggere una complessità maggiore del vivere i quartieri in un periodo storico sensibile come quello attuale, che ha visto la nascita di movimenti anti-globalizzazione, la diffusione dell’uso di internet, una maggior possibilità di circolazione e movimento di persone e di informazioni sul panorama internazionale.
Partendo da questi presupposti si è identificata e sondata la configurazione del sistema della produzione culturale indipendente nella città di Torino, e relativo funzionamento, considerando in questa catalogazione tutta una serie di realtà attive nel territorio, ma che sono (auto)escluse dalla sfera istituzionale e commerciale delle attività culturali conosciute. Dall’analisi della letteratura in questione e dalla ricerca portata a termine attraverso una mappatura generale, una survey quantitativa delle dimensioni strutturali di sessanta organizzazioni e un’indagine di approfondimento su un campione di ventuno casi studio ritenuti più significativi, si è arrivati a evidenziare le capacità di produzione di un clima culturale innovativo, capace di sviluppare capitale sociale nelle comunità locali e nuovi percorsi e modelli di sostenibilità economica della produzione culturale.
Attraverso pratiche di cittadinanza attiva e di partecipazione, queste esperienze tentano di ri-pensare il proprio agire quotidianamente costruendo nuovi paradigmi del lavorare assieme e generare valore economico, del fare rete con altri gruppi di creativi e semplici cittadini che operano in ambito artistico e culturale, condividendo un sistema valoriale e ideologico che cerca di dare un nuovo significato al mercato e alle relazioni economiche. Se si accetta la prospettiva per cui la cultura può essere considerata una risorsa che contribuisce in maniera significativa allo sviluppo e alla crescita economica locale, questi luoghi sono rappresentazioni e simulacri della richiesta di diritti nella città contemporanea, fatta da persone che riattivano il territorio a partire dalle energie presenti in loco, che interpretano «la cittadinanza come un meccanismo discorsivo potente, che frammezza e articola una identità per coloro che rivendicano diritti per le aree urbane. […] Una componente chiave di questa argomentazione è che il significato della cittadinanza si è spostato dall’essere un dato di stato ad essere un atto performativo»(5).
I centri indipendenti di produzione culturale sono l’evidenza di una metamorfosi dello spazio urbano, delle relazioni tra individui e dei sistemi di produzione culturale che portano alla sperimentazione di nuove forme di appartenenza, una complessità che rende difficile l’interpretazione del cambiamento e delle trasformazioni in atto con gli strumenti interpretativi attualmente forniti dall’economia di mercato. Una pluralità di valori esperienziali – talvolta inconsapevoli – sembrano emergere attraverso la forte unione dei singoli nelle attività, che con il loro contributo motivano l’esistenza stessa dei centri. Maurizio Carta parla di centro urbano come «motore di sviluppo sostenibile, che offre preziose occasioni di sviluppo non solo quantitativo, ma sempre più qualitativo, producendo effetti sia nel dominio dei beni collettivi che nel dominio dei capitali privati, offrendo un campo di sperimentazione all’innovazione»(6).
Si è trovato utile, dunque, dare profondità all’analisi di una dimensione fluida, sfuggente e poco indagata, ed esaminare i campi della produzione culturale che non appartengono né ai circuiti commerciali né a quelli istituzionali, per andare alla ricerca di quelle realtà che si trovano in uno stadio germinale, informale, liquido – per dirla alla Baumann – e tentare di leggere le potenzialità che tali contesti esprimono, cercando di costruire nuovi paradigmi interpretativi del livello di innovazione, del valore simbolico ed economico, del senso del vivere insieme e della qualità di vita che questi centri generano in maniera spontanea e quasi inconsapevole. Può essere utile interrogarsi sullo statuto di tali realtà che – spesso – sono al limite dell’informalità normativa(7), sulle possibilità di sviluppo di nuovi modi di lavorare e sul potenziamento di queste pratiche, che possono essere considerate come “qualcosa di nuovo che emerge” in nome della condivisione, della valorizzazione delle risorse, della partecipazione e dell’accessibilità alla cultura.
Per quanto siano disponibili degli strumenti utili a spiegare approfonditamente i meccanismi di diffusione dell’innovazione, potrebbe essere interessante capire come il fenomeno dei centri sorga in modo endogeno e si sviluppi in alcuni luoghi anziché in altri. Inoltre, la riduzione delle erogazioni pubbliche a seguito della crisi finanziaria e i problemi collegati alla poca maturità (o forse incapacità) degli operatori culturali e l’impossibilità (aspetti normativi e di defiscalizzazione) di attivare privati e sponsorizzazioni a sostegno delle organizzazioni, fonti che in passato avevano garantito un sostegno alle attività culturali, hanno mutato la visione di una cultura totalmente sostenuta e determinato una variazione nei comportamenti e nei mondi culturali, delineando nuovi paradigmi di produzione e diffusione della cultura, modi altri di affrontare la crisi (anche non orientandosi a modelli lineari e stabili), operando per necessità con gratuità dei fattori produttivi, lavoro in forma di volontariato e capitale in forma di contributi e autofinanziamento.
Verso una definizione dei centri indipendenti di produzione culturale
Per la definizione di uno schema interpretativo, si è cercato di costruire un modello teorico sviluppato sulla base delle analisi della vasta letteratura esistente nei campi dell’economia della cultura e degli urban studies. Oltre a evidenziare i limiti di ogni impostazione, si è cercato di segnalare le intuizioni per delineare un frame che rendesse possibile una prima definizione dei centri indipendenti di produzione culturale. Sebbene la totalità degli studi osservati si concentrino su dimensioni organizzative di produzione culturale strutturate e distinte a livello territoriale, situazioni nelle quali vengono attivate sinergie e relazioni economiche tra i soggetti riconosciuti della filiera produttiva, si è indagato un livello di produzione che si presenta sfuggente, fluido, contraddittorio e confuso.
I punti fermi sono, a ogni modo, i seguenti:
1) La cultura e la creatività sono fattori di sviluppo economico e sociale di un territorio;
2) La cultura e la creatività incidono sul territorio e concorrono alla metamorfosi dei contesti urbani.
La possibilità dei centri indipendenti di produzione culturale di configurarsi come fattori di sviluppo economico e sociale a livello locale, viene rintracciata nell’interessante intuizione di Bertacchini e Santagata, quando iniziano a leggere nelle reti tra attori economici operanti in ambito culturale e creativo, e nella conseguente dimensione relazionale di scambio di informazioni, di idee e competenze, un valore strutturale in grado di offrire la possibilità di pensare nuovi modelli sociali ed economici. Inoltre, tale configurazione di relazioni risulta essere un fattore qualificante della catena del valore del sistema produttivo locale, mentre la creatività viene concepita come un processo rivelatorio e visionario, fatto di tentativi e sperimentazioni che considerano capacità cognitive e ricettive degli stimoli esterni(8).
Prendendo in considerazione gli studi sulla classe creativa(9), sembrava pertinente alle finalità della ricerca, considerare la città come spazio energetico di scambio, che sembra caratterizzare la dimensione magmatica, multipla e articolata dei centri indipendenti di produzione culturale. Tuttavia ci si discosta dall’interpretazione di classe sociale avanzata come entità (al limite della) politica, che include al suo interno categorie di lavoratori molto differenti e un’accezione molto ampia di creatività. I cluster che sono stati presi quali punti di riferimento sono categorizzati secondo i paradigmi di “industria creativa”, “impresa culturale” e “patrimonio storico-artistico”(10), e non si farà riferimento a cluster di persone raggruppate come “creative” esclusivamente perché dotate di interessi comuni, linee di pensiero o comportamenti associabili (come sostenuto da Florida).
Cercando di prendere in considerazione i mutamenti cognitivi che vedono i contesti urbani ricoprire il ruolo di palcoscenici culturali e turistici in una competizione mondiale, si è presa in considerazione la teorizzazione sull’Entertainment machine(11), ritenendo valido che fruizione e produzione culturale siano fattori generatori di divertimento che potrebbero causare l’aumento di possibilità consistenti, ricercate consapevolmente, dell’innalzamento della qualità della vita e del benessere generale dei cittadini. Tuttavia, la produzione culturale verrà intesa più come processo produttivo e relazionale attinente alla sfera culturale che a quella dell’intrattenimento puro, visione legata all’insediamento di strutture commerciali in quartieri nei quali sono attivi processi di rigenerazione urbana e riqualificazione dei quartieri.
Un altro elemento importante per la griglia interpretativa del fenomeno, viene rinvenuto nel pensiero di Allen J. Scott quando si osservao le dinamiche del mercato del lavoro a base culturale(12), realtà che considera degli andamenti che sembrano consolidare una dicotomia tra lavoratori creativi ad alto reddito e una classe di persone che operano, in maniera subordinata ai primi, come fornitori di servizi a basso reddito. Oltre a questo conflitto, sembra pertinente l’indagine di una nuova dimensione del lavoro creativo, stabilmente orientato al progetto in maniera strategica, nella quale vengono riscontrate totale flessibilizzazione e stabilizzazione delle relazioni lavorative (che assumono un’importanza sempre maggiore per poter avviare nuove relazioni e progetti). Questo modo di governare il processo produttivo introduce elevati gradi di precarietà nei mercati del lavoro, praticamente a ogni livello di competenze e di capitale umano.
A ogni modo, uno degli aspetti preponderanti nella definizione dei centri indipendenti di produzione culturale sembra essere l’assunto che considera la cultura come una componente di capacitazione umana, legata alle dinamiche di partecipazione attiva delle persone al processo creativo. Benché non ci si trovi all’interno di una logica organizzata e concertata – come quella descritta da Sacco e Segre nella teoria dei distretti culturali evoluti, per esempio(13) – ci si è concentrati sulle relazioni tra persone consapevoli che le proprie scelte e azioni di partecipazione attiva, comportano un cambiamento nello sviluppo del capitale umano, dell’innovazione di prodotti e processi, nei circuiti economici e di innalzamento del capitale sociale e della vitalità delle relazioni. Un ulteriore tassello adottato per la definizione dei centri indipendenti è quello di Walter Santagata in “Simbolo e merce”, che per la prima volta prende in analisi il funzionamento del sistema di relazioni nelle arti visive nel contesto torinese, per indagare la molteplicità di realtà della produzione culturale, allargando l’osservazione a tutti gli ambiti creativi e non solo a quello studiato nel testo dell’economista torinese(14).
Conclusioni
Avviandoci alla comprensione della dimensione territoriale torinese e delle dinamiche che intercorrono nel rapporto tra cultura, creatività e spazio urbano emerge che i centri indipendenti di produzione culturale sono realtà fisiche e immateriali operanti in ambiti di cultura materiale, dell’industria del contenuto e del patrimonio artistico. Queste realtà raccontano di esperienze multi-disciplinari nel campo della produzione culturale e di momenti di crossover sociale, attivando momenti di dialogo tra le persone, scambio di conoscenza e informazioni, contaminazione e coinvolgimento di altri attori e organizzazioni presenti in un territorio di riferimento(15).
Emerge subito un’importanza delle reti sociali e della dimensione relazionale di scambio di informazioni, idee e competenze, che vanno a formare un valore strutturale in grado di offrire agli attori culturali la possibilità di pensare nuovi percorsi sociali ed economici, in linea di massima strutturati burocraticamente su modelli di tipo associazionistico o volontario, autonomi dalle dinamiche del capitalismo. Tendenzialmente orientati ad attività che offrono maggior possibilità di testare dal vivo e realizzare dei momenti culturali di interazione tra professionisti e di relazione con i pubblici, oltre a sperimentare nuovi linguaggi artistici, questi centri sono altamente specializzati nella produzione dei vari ambiti in cui agiscono anche se, tuttavia, mostrano caratteristiche di multi-settorialità nell’offerta al pubblico che si potrebbe giustificare con l’esigenza (anche economica) di allargare il bacino di utenza e di frequentazione dei centri stessi.
La città viene considerata come spazio dinamico di conoscenza, nel quale una cultura attiva e partecipata consente l’aumento di possibilità dell’innalzamento della qualità della vita e del benessere generale dei cittadini. È possibile affermare che, rispetto al campione preso in analisi, la maggior parte degli operatori culturali non considerino un target di pubblico specifico al quale riferirsi attraverso la loro proposta, ma siano (forse inconsapevolmente) orientati a pratiche inclusive.
La sostenibilità economica e l’accesso ai finanziamenti resta una delle principali difficoltà, poiché sia il legislatore sia il settore bancario non sono dotati degli strumenti necessari per l’analisi di tali modelli settoriali e non riesce a valutarne correttamente le risorse immateriali. La crisi economica rende la situazione ancora più difficile restituendo la necessità forte di sviluppare nuove forme di finanziamento e pratiche innovative per l’esercizio di attività culturali che siano in primo luogo attività economicamente sostenibili. Nonostante queste organizzazioni abbiano un budget annuale leggero, è possibile affermare che questo non è del tutto irrilevante e che tende ad incrementare e stabilizzarsi quando le organizzazioni riescono a spiegare il proprio operato nel lungo periodo; attivando un importante coinvolgimento di lavoratori con contratti a tempo indeterminato.
I centri indipendenti assumono l’autofinanziamento come modello finanziario di riferimento, che in minima parte risente positivamente delle erogazioni da parte di enti pubblici o privati e che hanno un’alta capacità di relazionarsi con partner e sponsor per rendere sostenibile la progettualità in un arco di tempo medio lungo, affiancando a queste soluzioni una serie di possibilità e strumenti economici per la sostenibilità. Se è vero che l’innovazione nasce dalla domanda di nuovi bisogni e servizi, è anche vero che la stabilità economica è il presupposto centrale per dare continuità alle attività di promozione culturale e artistica.
Buona parte dei centri indipendenti di produzione culturale è localizzato in quartieri periferici che hanno ereditato il pesante patrimonio immobiliare del periodo industriale, o in periferie interne delle città, quartieri con presenza multietnica e bassi livelli di reddito nei quali sono attive dinamiche di riconversione economica e sociale. Tuttavia gli operatori intervistati non sembrano essere particolarmente consapevoli delle scelte di localizzazione in determinate aree, se non per ragioni di vantaggio competitivo e strutturale (sostenibilità, accessibilità).
La produzione culturale realizzata nei centri indipendenti configura relazioni lavorative intese come prestazioni stabilmente orientate al progetto, nelle quali si riscontrano flessibilità e instabilità dei rapporti di lavoro, mentre assume un’importanza crescente la capacità di fare rete e adattarsi a dinamiche progettuali e temporanee del processo produttivo, elemento di compensazione indice del rafforzamento di coesione sociale attraverso dinamiche di community building che permettono una sostenibilità progettuale maggiore attraverso pratiche di autofinanziamento delle attività. Non trascurabile è la funzione di presidio territoriale che queste realtà rappresentano in termini di garanzia di decoro urbano, facilitazione nella mediazione e incontro tra etnie diverse, accessibilità a contenuti culturali per le fasce di reddito più basse o meno alfabetizzate.
I centri indipendenti di produzione culturale sono luoghi in cui la nuova formazione di cultura si delinea con un’impostazione e un’attitudine alla dimensione collettiva, tale da generare beni e servizi dal carattere esperienziale e relazionale, dove si sottolinea il valore culturale di condivisione della produzione, della fruizione e di consumo di beni e attività culturali, dando meno enfasi all’aspetto creativo e originale del singolo sul lato della produzione. In questo senso pare considerevole l’importanza delle continue attività di formazione e di partecipazione cosciente del pubblico attraverso l’organizzazione di corsi, laboratori e attività di networking, azioni rivolte alla creazione di un pubblico qualificato per la frequentazione dei centri. Sono luoghi fisici, dunque, e spazi immateriali nei quali la memoria collettiva si attualizza nelle pratiche di creazione contemporanea e, in questo ininterrotto processo di traduzione, diventano il fulcro dell’incontro di professionisti e spettatori, luoghi pubblici, di tutti ma al contempo “intimi”, che rilasciano fiducia e positività ripristinando un aumento (o una riattivazione) di capitale sociale deteriorato dall’individualismo e dalla frammentazione capitalistica.
Se è vero che i processi di riuso degli spazi abbandonati o sottoutilizzati sono uno strumento per guardare al futuro delle città con occhi nuovi, è altrettanto vero che – nel costruire il senso dei quartieri – i centri indipendenti diventano l’occasione reale per affrontare questa fattibilità con processi virtuosi di place making, che guardino all’esigenza della maggioranza dei cittadini, ma sperimentino azioni innovative e inclusive anche a un livello multi-scala geografica, rivelando buone pratiche che includano sia popolazioni meno istruite o abbienti sia creativi variamente dislocati nel mondo ma che trovino coesione nella progettazione culturale. Tali processi di ri-significazione dello spazio urbano attivano delle traduzioni imperfette delle stratificazioni culturali dei contesti, nuovi modi di vedere i luoghi sfidando le trasformazioni e i significati delle grandi categorie della soggettività occidentale per costruire delle nuove immagini e narrazioni per mezzo della pratica creativa e della consapevolezza del proprio ruolo e funzione all’interno della società.
Essere indipendenti vuol dire, infatti, essere motori attivi in una dimensione, allo stesso tempo, individuale e collettiva, dove l’azione del singolo è inserita in un progetto generale del fare da sé, do it yourself, per diffondere dei valori prioritari, dare risposte che incidono nella vita quotidiana e rispondono alle complicazioni dell’ambiente circostante; agire locale per articolare – così – degli atteggiamenti sociali di lungo periodo che rispondono a un’attitudine: muoversi dall’isolamento e dallo spaesamento per raggiungere un cambiamento di scala (che sia economica, sociale, culturale), passando attraverso processi di sperimentazione e di innovazione nelle pratiche culturali sempre più partecipative e generative.
Note
(1) Nel 2000, il Premio Nobel Amartya Sen pone al centro della riflessione l’approccio alla capacitazione umana. Partendo dal concetto di capitale umano come processo attivo in cui l’istruzione rende l’individuo più efficiente in una logica produttiva, portandolo a far aumentare il valore economico della propria produzione, si arriva all’introduzione dell’idea delle capabilities, dove l’istruzione è importante perché permette di svolgere attività che mettono l’individuo in condizione di scegliere con maggiore consapevolezza, sviluppando cioè l’aspetto di quella che viene definita da Sen come capacitazione umana.
(2) 9° Censimento generale dell’industria e dei servizi e Censimento delle istituzioni non profit, scaricabile da www.istat.it/it/censimento-industria-e-servizi?, ultimo accesso 20/06/2014.
(3) Luigi Ratclif e Luca Castelli, Generazione terzo millennio: i centri indipendenti di produzione culturale, in Economia della Cultura, Anno XXIII, 2013 / n. 2.
(4) Jonathan Lepofsky and James C. Fraser , Building Community Citizens: Claiming the Right to Place making in the City, in Urban Studies, Vol. 40. 1, 2003, pagg. 127–142.
(5) Ivi, p. 127.
(6) Maurizio Carta, Città creativa 3.0. Rigenerazione urbana e politiche di valorizzazione delle armature culturali, in M. Cammelli, P.A. Valentino (a cura di), Citymorphosis. Politiche culturali per città che cambiano, Giunti, Firenze, 2011, p. 214.
(7) Roberto Covolo, Identità e sostenibilità dei centri culturali indipendenti. Riflessioni in forma di appunti per introdurre la discussione, a cura di Roberto Covolo, testo introduttivo della conferenza in ArtLab 13 – Territori, cultura, innovazione, Lecce 24-28 settembre 2013.
(8) Bertacchini E.; Santagata W, Atmosfera creativa. Un modello di sviluppo sostenibile per il Piemonte fondato su cultura e creatività, a cura di Bertacchini E.; Santagata W., Il Mulino, Bologna, 2012.
(9) Richard L. Florida, Cities and the creative class, Routledge, 2004.
(10) Walter Santagata, Libro Bianco della Creatività. Per un modello italiano di sviluppo, Università Bocconi Editore, Milano, 2009
(11) Terry Nichols Clark, The City As an Entertainment Machine, Lexington Books, 2004.
(12) Allen J. Scott, Città e Regioni nel nuovo capitalismo. L’economia sociale delle metropoli, Il Mulino, Bologna, 2011.
(13) Pier Luigi Sacco e Giovanna Segre, Creativity and new patterns of consumption in the experience economy, No. 02, Working Paper EBLA (International Centre for Research on the Economics of Culture, Institutions, and Creativity), 2006.
(14) Walter Santagata, Simbolo e merce: I mercati dei giovani artisti e le istituzioni dell’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1998,
(15) La bibliografia prodotta in questo ambito di ricerca è molto vasta. Per un approfondimento si consiglia, tra i tanti, Abbruzzese (1976), Appadurai (2011), Beck (2003), Bonomi (2000), Santagata e Bertacchini (2012), Salone (2012), Castell (2004 e 2006).