1. Introduzione
Uno dei più importanti dilemmi riguardanti lo sviluppo delle organizzazioni non profit in Italia e più in generale in tutti i paesi dove il settore ha assunto una significativa consistenza quantitativa e, in senso lato, politico-culturale, consiste nella definizione e collocazione delle attività di natura imprenditoriale. La gran parte di queste organizzazioni, infatti, si caratterizza per il fatto di non avere natura produttiva, o dove questa è presente, spesso assume caratteri di estemporaneità e discontinuità. Nel caso in cui la dimensione imprenditoriale sia rilevante, ciò sembra avvenire attraverso forme tradizionali d’impresa che si svincolano così dal settore, oppure attraverso tecnostrutture imprenditoriali costituite come “bracci operativi” posti sotto il controllo dell’organizzazione non lucrativa.
Eppure guardando all’evoluzione recente non è difficile notare l’ampia diffusione di soggetti che hanno saputo mantenere gli obiettivi tipici del settore – finalità di interesse collettivo, forma giuridica privata, assetti democratici e partecipativi, carattere non lucrativo – sviluppando iniziative basate sui classici canoni imprenditoriali: continuità e qualità della produzione, capacità di generare risorse economiche attraverso transazioni di mercato, creazione di occupazione, ecc.. Questo particolare fenomeno è stato definito “impresa sociale” per sottolineare che, lo svolgimento di attività d’impresa finalizzate a realizzare obiettivi di interesse collettivo (e non per soddisfare in via esclusiva le esigenze di chi esercita diritti di proprietà), non è un ossimoro, ma ha assunto una rilevanza in termini empirici, giuridico formali e gestionali.
Dal punto di vista teorico-concettuale la definizione più esaustiva è quella elaborata dal network europeo Emes, secondo il quale l’impresa sociale è un’organizzazione privata che produce beni e servizi in forma continuativa e professionale con un elevato grado di autonomia sia nella costituzione che nella gestione. In quanto impresa prevede l’assunzione da parte dei proprietari di un significativo livello di rischio economico e si caratterizza per la presenza di lavoratori retribuiti accanto a volontari e utenti. La sua missione sociale risiede nell’obiettivo di produrre benefici a favore della comunità nel suo insieme o di gruppi svantaggiati. Si tratta inoltre di un’iniziativa collettiva, cioè promossa non da un singolo imprenditore, ma da un gruppo di cittadini. A tal fine si dota di sistemi di governance che garantiscono una partecipazione ai processi decisionali allargata, in grado di coinvolgere i diversi gruppi interessati all’attività. Infine prevede la non distribuibilità degli utili, o al più una distribuibilità limitata.
Questa definizione sintetizza una pluralità di esperienze avviate negli ultimi trent’anni a livello internazionale, soprattutto in Europa. Inoltre essa ha ispirato progetti di legge e politiche che intendevano riconoscere e promuovere il fenomeno nelle sue diverse declinazioni.
2. La cooperazione sociale: peculiarità ed elementi di apprendimento
Una volta descritti i principali tratti identitari dell’impresa sociale è possibile approfondire il caso italiano, per ricavarne indicazioni utili a delineare alcuni possibili percorsi di sviluppo di questa forma d’impresa, soprattutto in ambito culturale.
In Italia l’impresa sociale ha trovato un contesto particolarmente favorevole grazie all’affermazione di un modello giuridico organizzativo (la cooperazione sociale, riconosciuta dalla legge n. 381/91) all’interno di un ben definito settore di intervento (i servizi di welfare, soprattutto in campo socio assistenziale). Il binomio cooperazione sociale / welfare ha fin qui costituito un’importante leva per lo sviluppo dell’imprenditoria sociale che non sembra aver ancora esaurito il suo effetto. Secondo le statistiche più recenti le cooperative sociali sono oltre 7.300 e sono cresciute del 33% nel quadriennio 2001-2005. Producono servizi socio assistenziali, educativi e di inclusione attraverso il lavoro per oltre 3,3 milioni di persone grazie al contributo di 244mila lavoratori retribuiti e di 30mila volontari, generando un giro d’affari pari a 6,4 miliardi di euro.
La crescita di questo particolare modello richiama la necessità di individuare alcuni elementi di apprendimento, utili non solo ad interpretarne l’evoluzione, ma anche per sostenere processi di trasferibilità in altri settori e rispetto ad altre tipologie della medesima specie imprenditoriale.
La prima “lezione” riguarda il modo in cui le cooperative sociali sono riuscite ad avviare attività imprenditoriali in un settore, come quello del welfare, basato su principi di funzionamento diversi (trasferimenti monetari di tipo redistributivo) e caratterizzato da un ruolo dominante della pubblica amministrazione a cui corrisponde una posizione marginale dei soggetti privati (lucrativi e non). Il punto di equilibrio di un’azione imprenditoriale socialmente efficace e sostenibile in termini economico / finanziari richiede, da un lato, una spiccata capacità di lettura dei bisogni per coglierne il carattere mutevole, differenziato e localizzato. A tal fine è necessario promuovere forme di empowerment di coloro che esprimono tali esigenze (gli utenti dei servizi, ma anche le loro reti parentali, amicali, comunitarie) coinvolgendoli, in modi diversi, all’interno dei processi produttivi e nel governo dell’impresa. D’altro canto le cooperative sociali non hanno agito solo sulla dinamica dei bisogni, ma hanno saputo attrarre e utilizzare risorse che altri soggetti ritenevano non sufficienti a sostenere i costi di struttura o non in grado di generare un adeguato margine di redditività.
Per questo hanno sviluppato, accanto a consistenti transazioni di mercato (soprattutto nei mercati pubblici), una buona capacità di attrarre risorse di diversa natura di tipo non economico e di provenienza donativa (come ad esempio il volontariato). Questo mix di risorse ha consentito di sostenere la produzione continuativa di beni e servizi ed anche la loro redistribuzione secondo criteri legati più alla soddisfazione dei bisogni che non alla solvibilità dei beneficiari, ad esempio erogando servizi anche a soggetti non paganti o a prezzi non di mercato. Si tratta quindi di un’azione imprenditoriale del tutto caratteristica e non facilmente imitabile da altri modelli organizzativi.
Il secondo apprendimento consiste nel fatto che le cooperative sociali sono imprese potenzialmente orientate non solo al dialogo, ma a forme di partenariato più articolate e complesse con i loro diversi stakeholders. Si tratta quindi di organizzazioni aperte alle diverse espressioni degli interessi a livello territoriale, rispetto alle quali sono in grado di proporre forme partecipative che vanno dall’informalità delle relazioni di prossimità fino a forme più strutturate come protocolli, partenariati, ecc. che possono poi concretizzarsi nell’adesione societaria.
Ed è proprio la configurazione del sistema proprietario delle cooperative sociali a costituire un efficace indicatore del loro livello di rappresentatività comunitaria, per cui la presenza di uno o più stakeholder tra lavoratori, volontari, utenti dei servizi, finanziatori, ecc. nella compagine sociale fa effettivamente la differenza nel “leggere” il territorio dal punto di vista dei bisogni e delle risorse disponibili e, su questa base, di interagire in modo efficace con altri interlocutori su obiettivi comuni.
Il terzo elemento di apprendimento è dato dalla capacità di individuare e attrarre capitale umano attraverso un “mix di incentivi” adeguato a valorizzarne le competenze e a soddisfarne gli elementi motivazionali più profondi. Questi ultimi, in linea di massima, sono soprattutto di tipo intrinseco e legati alla qualità del sistema relazionale (interno all’organizzazione e nei confronti degli utenti) e alla gestione dell’impresa secondo principi di equità in senso procedurale (possibilità di partecipare ai processi decisionali) e distributivo (rispetto alle risorse generate). Ciò fa sì che in queste imprese si trovino persone tendenzialmente più soddisfatte per i contenuti del proprio lavoro (retribuito o volontario) rispetto ad altre organizzazioni sia pubbliche che private, in quanto la loro retribuzione si caratterizza per la presenza di fattori di natura extraeconomica che incidono in maniera preponderante sulla scelta di entrare nell’organizzazione e soprattutto in quella di rimanervi.
Infine, un ultimo importante elemento di apprendimento consiste nella capacità di aggregazione anche al di fuori dei “confini” organizzativi. La capacità di coinvolgimento delle cooperative sociali si risolve non solo attraverso l’apertura del loro sistema organizzativo e di governance, ma anche attraverso la creazione di reti di relazione inter-organizzativa su base territoriale, per ambito di attività, per tipologia di utenza, forma giuridica, matrice culturale, ecc. Tali network riguardano sia la produzione di beni e servizi promuovendo, ad esempio, “filiere” di intervento a livello territoriale, sia l’attività di policy making grazie alla partecipazione a “tavoli” di coordinamento e co-progettazione con enti pubblici e altri attori del terzo settore.
Gli elementi di apprendimento appena descritti non sono comunque generalizzabili alla cooperazione sociale nel suo insieme. Anzi, nel corso del tempo, si sono manifestate, sempre più evidenti tendenze alla differenziazione interna tra organizzazioni che hanno saputo capitalizzare gli elementi di peculiarità in un modello gestionale relativamente stabile, ed altre che invece hanno smarrito, o non hanno mai realizzato, questi stessi elementi. La forma giuridica non rappresenta quindi, di per sé, un fattore identitario, ma richiede parallelamente la definizione di precise strategie di sviluppo. Non a caso soprattutto negli ultimi tempi è emersa la necessità di rimettere al centro del dibattito il rapporto tra cooperazione sociale e comunità, in opposizione a una tendenza che vede una parte piuttosto consistente di questo stesso settore operare esclusivamente come agenzia di prestazione di servizi di outsourcing per la pubblica amministrazione. Ciò genera vere e proprie forme di colonizzazione burocratica e la progressiva perdita di quegli elementi di radicamento comunitario (ben simboleggiati dal declino del volontariato) che sostanziano la missione di perseguire “l’interesse generale della comunità” riportata nella legge di settore e ribadita negli statuti di queste imprese.
3. La nuova legge sull’impresa sociale: un’occasione mancata?
Il percorso di istituzionalizzazione dell’impresa sociale potrebbe essere favorito da una legge di recente approvazione (n. 118/05 e successivi decreti) che non riconosce una nuova figura giuridica, ma piuttosto introduce, sulla base di elementi definitori generali, alcune qualifiche potenzialmente applicabili a qualsiasi forma giuridica privata (non solo non profit, ma anche di carattere commerciale) . Tali qualifiche riguardano:
– le finalità dell’impresa che la legge identifica in obiettivi di “interesse generale”;
– i settori di intervento, per cui un’impresa sociale è tale in quanto produce beni di “utilità sociale” che, operativamente, corrispondono non solo ai settori tradizionali della cooperazione sociale, ma anche ad ambiti come la cultura, la formazione, il turismo sociale, ecc.;
– l’assetto di governance, prevedendo “forme di coinvolgimento” (diversamente modulate nei decreti applicativi) per lavoratori e beneficiari delle attività;
– la distribuzione degli utili che viene vietata, anche in forma indiretta;
– le modalità di rendicontazione dell’attività imprenditoriale, rendendo obbligatorio non solo il bilancio economico ma anche quello sociale.
Questa inedita forma di riconoscimento contiene in sé un notevole potenziale per fare emergere una popolazione di imprese sociali chiaramente definita nei tratti distintivi, ma anche variegata al proprio interno in un’ampia gamma di forme e di settori, rendendo così fruibile questo particolare modello accanto alle forme d’impresa tradizionali. L’applicazione della normativa, però, procede molto a rilento tanto che essa risulta ancora poco conosciuta anche da parte di quelle organizzazioni che potrebbero trarne beneficio. Inoltre il fatto che la legge non contenga alcuna forma di incentivo fa sì che anche le forme storicizzate, come la cooperazione sociale, siano ancora piuttosto “tiepide” rispetto ad un possibile adeguamento alla nuova norma.
4. Le traiettorie di sviluppo dell’impresa sociale culturale
A fronte dello scenario appena descritto quale spazio esiste per l’impresa sociale in campo culturale? Allo stato attuale è possibile delineare due possibili percorsi.
Il primo si sviluppa all’interno della cooperazione sociale. Le attività svolte da queste imprese, infatti, seguono un andamento che tende progressivamente a differenziarsi per tipologia d’intervento e per destinatari, cercando in questo modo di rispondere con maggiore efficacia ai bisogni e alle esigenze che si esprimono nei loro contesti di azione. Una delle principali linee evolutive, caratterizzata da consistenti elementi di innovazione, riguarda la crescente produzione di servizi e iniziative di carattere culturale. Le cooperative sociali ricorrono ad attività culturali al fine di perseguire con modalità diverse le finalità tipiche della loro mission, rendendole parte integrante di progetti educativi, terapeutici, di socializzazione e inclusione, di sviluppo comunitario. A ciò va aggiunto il contributo non indifferente da parte delle cooperative sociali che attraverso le attività di inserimento lavorativo svolgono un importante ruolo di “service” per eventi e all’interno di strutture culturali. Le esperienze fin qui disponibili si sono sviluppate in modo spontaneo e pur essendo spesso in forma embrionale o di sperimentazione, si trovano al centro di un interesse sempre più diffuso da parte di diversi soggetti.
Le cooperative hanno necessità di definire con precisione a quali condizioni e attraverso quali iniziative la produzione culturale può diventare un vero e proprio asset imprenditoriale e non solo un’attività “collaterale” al loro core-business. Ma anche importanti interlocutori di queste imprese manifestano un uguale interesse rispetto ad un posizionamento più centrale della cooperazione sociale nelle politiche culturali. Gli enti pubblici, ad esempio, sono propensi a sostenere iniziative che oltre alla qualità intrinseca dell’evento teatrale, letterario, artistico, ecc. presentino significative ricadute anche in ambito educativo, di coesione e integrazione sociale, ecc., cioè proprio quegli elementi che connotano più da vicino l’operato delle cooperative sociali. Inoltre, lo svolgimento di attività culturali è funzionale non solo ad arricchire l’offerta di beni e servizi, ma ad almeno due ulteriori finalità.
In primo luogo eventi ed iniziative culturali rappresentano lo strumento attraverso cui le cooperative sociali realizzano, nei fatti, una strategia di radicamento nei tessuti comunitari, coinvolgendo un numero crescente e variegato di soggetti economici e sociali che poi possono coalizzare intorno a concrete iniziative di sviluppo, in veste di partner operativi, finanziatori, sostenitori che legittimano il carattere di “interesse collettivo” dell’attività proposta. In secondo luogo, la proposta di attività culturali viene sempre più spesso riconosciuta come strumento attraverso cui si rafforza il rapporto tra l’organizzazione e le persone che, a vario titolo, vi collaborano. Si tratta infatti di soggetti per i quali gli elementi di senso legati alla loro esperienza lavorativa e ancor più di volontariato acquisiscono una notevole rilevanza che può trovare inedite forme di “remunerazione” anche fruendo di attività culturali finalizzate, ad esempio, alla formazione.
Il secondo percorso riguarda altri soggetti diversi dalla cooperazione sociale fortemente impegnati nel settore della cultura che possono guardare all’impresa sociale come ad una possibile evoluzione di alcune loro attività, grazie anche alle già citate innovazioni in campo legislativo. Le indagini esplorative fin qui svolte , pur scontando l’incompletezza delle fonti informative, hanno messo in luce un potenziale considerevole di organizzazioni del settore culturale che presentano caratteristiche imprenditoriali.
Nella maggioranza dei casi si tratta però di una dimensione rispetto alla quale esiste una scarsa consapevolezza da parte dei gestori di queste iniziative e, nei casi più estremi, si segnalano atteggiamenti di scetticismo, se non di rifiuto, anche a fronte di processi imprenditoriali già in essere. Si conferma quindi che, al di là dei destini della nuova normativa, esiste un problema di natura prima di natura culturale e successivamente manageriale rispetto al “perché” e al “come” fare impresa da parte di quei soggetti non profit che nella cultura identificano il proprio ambito di attività.
5. In conclusione: strategie e campi di azione
Riprendendo lo schema delle due traiettorie di sviluppo dell’impresa sociale in ambito culturale è possibile indicarne i principali beneficiari, vale a dire gli enti di natura pubblica e l’associazionismo privato.
Uno dei percorsi più interessanti in questa direzione consiste in forme di collaborazione finalizzate a fornire servizi agli enti e alle strutture interessate. Questo ruolo va immaginato non solo come occasione per rafforzare la dimensione economica e occupazionale con i soggetti già attivi all’interno dell’attività culturale, ma soprattutto come occasione per sviluppare un percorso di crescita capace di generare un know how specifico legato alle diverse tipologie di evento. In questo senso, le possibilità di articolazione di queste attività di accompagnamento sono molteplici e dotate di un alto potenziale di diversificazione e di sperimentazione nei campi dell’apprendimento e della didattica. La traiettoria interna alla cooperazione sociale presenta invece la possibilità di sfruttare questo percorso per stringere i nodi di una rete, dove le competenze sono spesso distribuite in modo molto specifico ma altamente settoriale. L’organizzazione di un percorso di formazione potrebbe essere in un primo momento articolata proprio attraverso una mappatura delle diverse competenze, quindi attraverso la pianificazione di uno scambio virtuoso di pratiche migliori condotto dagli stessi operatori. Un secondo momento potrebbe vedere il rafforzamento di questa rete cooperativa anche attraverso l’organizzazione di seminari di specializzazione e di approfondimento.
In conclusione, appare chiaro che per “ingegnerizzare” un promettente settore di sviluppo caratterizzato però da una certa frammentazione interna è necessario affrontare alcune questioni – chiave da cui dipende la definitiva affermazione delle imprese a finalità sociale in ambito culturale.
– La prima questione riguarda il rapporto tra cultura e sviluppo locale. Se a livello generale si evidenzia un rafforzamento di questo binomio, almeno nella formulazione delle politiche territoriali, è necessario verificare quali siano gli spazi effettivamente disponibili per dar vita a iniziative imprenditoriali che guardino alla cultura in questa prospettiva, ovvero come ad uno dei “motori” dello sviluppo socio economico locale che si realizza anche attraverso l’azione delle imprese sociali.
– La seconda affronta il tema della qualità delle proposte culturali fin qui elaborate dalle imprese sociali, cercando di valorizzarne gli elementi di innovazione e favorendo l’apprendimento reciproco dalle esperienze, ma lavorando anche per inserire ed “accreditare” queste imprese all’interno di network professionali (sia pubblici che privati) che producono e distribuiscono eventi e attività culturali.
– Terza e ultima questione consiste in un’analisi approfondita della sostenibilità in termini imprenditoriali delle attività culturali, in modo che ne possano beneficiare sia le iniziative originate all’interno della cooperazione sociale, sia quelle provenienti da organizzazioni non profit che intendono evolvere in tal senso.
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