Abstract
The increase in the interest towards museums and cultural heritage is now more than a widespread feeling: even if the cultural consumption rates in our country have huge margins of development, it is very significant that in the last years ISTAT registers a substantial increase of those who have gone at least once to visit exhibitions and museums. Today, we face a competitive environment, changed profoundly and characterized by the reduction of public funds and by the enlargement of the entertainment offering.
The article analyses the development made in visitors’ studies and offers a focus on future development of this kind of research. In first paragraph, the author contextualize these studies within a framework; paragraph 2 illustrates the available toolboxes that museum practitioners and researchers could use to implement further analyses while paragraph 3 illustrates the main results of visitors’ studies researches. In paragraph 4, the article will introduce a management perspective and will define the evaluation politics that could help in managing museums. Finally, the article concludes with the enunciation of one of the most important future challenges for the future of the museum sector: non-visitors and first access to the museums.
Il contesto museale e i suoi pubblici: una definizione integrata
Premessa
La crescita dell’interesse verso i musei e i beni culturali è oramai ben più che una sensazione diffusa: anche se i tassi di consumo culturale nel nostro Paese presentano ampi margini di crescita, è assai significativo che negli ultimi anni l’ISTAT registri un sostanziale incremento di coloro che si sono recati almeno una volta a visitare mostre e musei. Siamo oggi di fronte ad un contesto competitivo profondamente mutato, caratterizzato dalla diminuzione di fondi pubblici e dall’allargamento dell’offerta di intrattenimento. Nel perseguimento della loro missione di conservazione, creazione e diffusione del sapere, i musei non possono dunque non interrogarsi sulla natura, sulle motivazioni e sui livelli di soddisfazione dei propri pubblici. Nell’ambito del cosiddetto “mercato culturale”, si tende ad analizzare il pubblico usando due chiavi di lettura diverse e contemporaneamente fondamentali: da un lato, quella che lo identifica come attore protagonista dell’azione di fruizione secondo categorie sociologiche; dall’altro, quella che lo legge come agente economico coinvolto in una relazione di mercato, cioè come consumatore, con le sue attese e i suoi bisogni. Di certo, il pubblico non è più oggi un’entità astratta e generale, ma un raggruppamento riconosciuto di fruitori, reali e/o virtuali, definibili per caratteristiche, risorse culturali, attese e pratiche comuni. Giovani di età diverse, adulti colti o solo ansiosi di consumare un rito mondano, stranieri frettolosi e cultori solitari, il pubblico del museo è tutto questo: come preconizzava Walter Benjamin, “masse sempre più vaste di partecipanti” hanno determinato ormai “modi diversi di partecipazione”.
Conoscere il pubblico non vuol dire limitarsi alla registrazione di puri dati numerici: solo analisi sovrapposte qualitative oltre che quantitative possono permettere un certo grado di approfondimento e fornire un quadro di analisi più definito. Infatti, se osservato attraverso la lente dei tradizionali descrittori socio-demografici (titolo di studio, categoria professionale, età, genere, ecc.), il fruitore museale sembra da tempo “imbalsamato”; eppure, in riferimento alla componente motivazionale, ci appare più individualista, quasi sfuggente, a volte impulsivo, ma quasi mai sprovveduto.
Per quanto riguarda l’Italia, la sensazione è che lo stato dell’arte sulla conoscenza del pubblico museale sia una realtà multiforme e discordante. La consapevolezza dell’importanza di studi e ricerche scientifiche nel settore è cresciuta enormemente negli ultimi dieci anni, ma le potenzialità di questi mezzi non sono sfruttate in pieno. Nella maggior parte dei casi, le indagini vengono concepite come una finalità, e non come uno strumento: al contrario, esse dovrebbero costituire una base di controllo sulla quale impostare eventuali politiche di cambiamento in termini di “messa in scena” e partecipazione all’offerta museale.
Il museo è una delle istituzioni più complesse e problematiche del nostro tempo. Eppure, quello che colpisce è la duttilità con cui esso si presta ad essere interpretato e a cambiare repentinamente di immagine e di inquadratura. E’ possibile, ad esempio, esaminare il rapporto tra il museo e i suoi pubblici utilizzando una prospettiva globale e integrata.
L’auspicabile approccio multidisciplinare comprende:
• Un filone sociologico (sociologia dell’arte, sociologia della cultura, sociologia dell’educazione);
• Un filone umanistico (museologia, con la particolare declinazione dei visitor studies, un’area di ricerca molto diffusa nel contesto statunitense, australiano);
• Un filone economico (economia della cultura e riconoscimento del museo come impresa culturale dal forte impatto economico, applicazione del marketing nella gestione delle istituzioni culturali).
I recenti cambiamenti avvenuti nel comparto dei beni culturali (pensiamo all’introduzione del concetto di “economicità” alle organizzazioni museali) si accompagnano ai mutamenti che interessano il pubblico, soprattutto in termini di aspettative e modi stessi della fruizione. Tali cambiamenti coinvolgono sia l’identità del pubblico, oggi più frammentata, sia il modo con cui ad essa si guarda, o si dovrebbe guardare. Le ragioni di un simile processo sono varie: la necessità di valorizzare maggiormente gli aspetti legati all’informazione e alla produzione culturale rispetto a quelli connessi alla conservazione e alla tutela; l’evoluzione dei modelli di comunicazione e trasmissione del sapere, in parte legata all’accresciuto numero dei visitatori; il peso sempre maggiore acquisito dalla possibilità di vivere un’esperienza, cioè di compiere una visita che abbia, anche grazie ad un coinvolgimento emotivo, qualcosa di unico e memorabile, e possa quindi essere ripercorsa nella dimensione del ricordo. Il risultato più vistoso è quello che potremmo definire “natura multidimensionale” del museo contemporaneo.
1. Valori, contesti e culture museali
L’importanza di mantenere un’interpretazione ad ampio raggio del contesto museale non deve essere sottovalutata. L’approccio che Jonsson (Jonsson, 1996), definisce “modesto” – cioè una politica di studio che sappia ascoltare e comprendere sia i punti di vista altrui che le diverse tradizioni professionali in gioco -, acquista il valore di un intento programmatico, benché non sia uno specchio della realtà esistente.
L’analisi della letteratura di settore ci consente di mettere in luce una sorta di sfaldamento concettuale in tal senso: se è vero che il contesto museale può essere indagato attraverso la lente di discipline diverse, è altrettanto vero che spesso ognuna di esse opera in maniera indipendente, trascurando approfondimenti e collegamenti incrociati 1 (Bourdieu, P. 2001; Bourdieu, P., Darbel, P., 1972).
2. Conoscere il pubblico: la “cassetta degli attrezzi”
La visita al museo è sostenuta da aspettative, agende personali, contesti sociali: non si entra al museo “nudi”, ma in compagnia delle proprie storie di vita. La conoscenza del pubblico museale costituisce pertanto un punto di vista privilegiato, soprattutto alla luce del significativo spostamento della funzione dei musei verso l’aspetto comunicativo. Tale conoscenza si ottimizza attraverso la definizione di una “cassetta degli attrezzi” che individui chiaramente le dimensioni di analisi, gli strumenti da utilizzare, le metodologie più idonee. Più in particolare, il primo passo per migliorare le capacità di programmazione di un museo consiste nel proteggere la gestione dei cosiddetti dati interni: gli ingressi, il sistema di tariffazione e prenotazione, l’indirizzario, il registro delle visite, le informazioni provenienti dal personale di front-line, il sito web. Sono questi gli strumenti più idonei per supportare il processo decisionale e definire in maniera più chiara l’utenza, facendo circolare la comunicazione in modo diretto e mirato.
Che dire, invece, del senso attribuito al consumo museale da parte dei visitatori? I risultati delle indagini più recenti condotte sul pubblico museale in Italia si prestano ad una doppia lettura (Bollo, A.). Da un lato, il fruitore museale sembra da tempo “imbalsamato”, se osservato attraverso la lente dei tradizionali descrittori socio-demografici (titolo di studio, categoria professionale, età, genere, ecc.). Dall’altro, se investigato in riferimento alla componente motivazionale, ci appare più individualista, quasi sfuggente, a volte impulsivo, ma quasi mai sprovveduto. La novità sociologica più interessante è che l’esperienza museale viene sempre più utilizzata a fini informativi e comunicativi. Il suo valore d’uso (voglia di conoscere, di appagare il proprio senso estetico, ecc.) tende a diminuire a favore del suo essere linguaggio, segno, comunicazione. La visita diventa un modo per diffondere la propria posizione all’interno di un determinato spazio sociale, ma anche il proprio sistema di valori e lo stile di vita.
3. I visitor studies in Italia
In Italia è soprattutto a partire dagli anni ’80-‘90 del secolo scorso che si è sentita l’esigenza di studiare il pubblico dei musei.
Lo stato dell’arte sulla conoscenza del pubblico museale sembra essere una realtà multiforme e discordante. Dobbiamo ammettere che la consapevolezza dell’importanza dello studio del pubblico è cresciuta enormemente negli ultimi dieci anni. Le ricerche non sono avvertite come un “corpo estraneo”: sono uno strumento di cui si ha coscienza, ma che non viene sfruttato in tutte le sue potenzialità. Le motivazioni di una simile situazione sono difficili da indagare. Le ipotesi potrebbero muoversi lungo un doppio binario. Da un lato, non possiamo sottovalutare la tradizionale mancanza di fondi: condurre una ricerca è costoso, in termini di tempo, denaro e soprattutto, professionalità. Dall’altro, l’impressione di non totale consapevolezza risponde ad una questione di gerarchie e priorità culturali. In altri termini, se la priorità viene assegnata alla funzione di conservazione museale, è probabile che la conoscenza del pubblico passi in secondo piano. Dal livello teorico ci spostiamo a quello prettamente empirico: le ricerche condotte in Italia scontano una certa pluralità di committenza, obiettivi, finalità. Questo, probabilmente non è un fatto negativo; lo diventa nel momento in cui questa diversità si traduce in una impossibilità di confronto delle ricerche e di sistematizzazione dei dati.
Una rassegna completa delle indagini compiute sul pubblico museale permetterebbe di definire punti di contatto e standard relativi alle diverse metodologie impiegate, nonché una griglia comune di finalità e procedure. Questo obiettivo si accompagna alla necessità di un coordinamento delle ricerche a livello nazionale, almeno per quanto riguarda i musei di proprietà statale. A corredo, apparirebbe proficuo istituire una sorta di “osservatorio permanente” del pubblico museale sul modello di quello francese, volto a monitorare con costanza l’evoluzione della domanda. Una seconda ipotesi, prospettata da molti economisti, è la possibilità di trasformare i musei in centri di spesa autonomi: dotare le Soprintendenze di un potere meramente scientifico e imprimere al museo una struttura manageriale. Esso sarebbe così maggiormente incentivato a conoscere il proprio pubblico, adottando politiche comunicative mirate capaci di incrementare la propria quota di mercato. A parte gli innumerevoli stravolgimenti politici ed organizzativi che una simile visione comporta, riteniamo che, per la stessa valenza del museo come servizio pubblico, la piena consapevolezza dell’importanza dello studio del pubblico debba essere raggiunta a prescindere dalle forme proprietarie e gestionali.
4. Il museo tra gestione manageriale e politiche di valutazione
Incrementare la conoscenza del pubblico museale implica la presa in esame di questioni tecniche non poco rilevanti. In Italia si tende generalmente a distinguere semplicemente fra ricerche condotte su un campione ampio, con un modello di ricerca definito e una metodologia strutturata, e indagini esplorative, concentrate su oggetti di analisi più circoscritti e sulla verifica parziale di ipotesi che possono poi diventare l’avvio di studi più ampi. La valutazione costituisce un aspetto critico: appare opportuno provare ad inglobare il processo di valutazione in tutti gli stadi di sviluppo del progetto museale, ricalcando così la distinzione tra ricerca e valutazione ormai collaudata in ambito anglosassone. Non possiamo del resto sottovalutare i fattori di natura culturale e le prassi consolidate di curatori e direttori museali, i quali non vogliono vedere intaccata la loro autonomia durante la costruzione dei discorsi e dei significati di mostre e collezioni. Al di là del senso di una distinzione tecnica tra ricerca e valutazione e della sua applicazione nel nostro Paese, si rileva con piacere che termini come standard, efficienza, efficacia, buone pratiche, sono comunque entrati a far parte del lessico del settore dei beni culturali, chiamando il museo ad erogare un servizio per la collettività. Questo processo, appena iniziato in Italia, ha condotto, per esempio, all’utile formulazione dell’ Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e standard per i musei. Un altro aspetto di rilievo riguarda gli strumenti di analisi impiegati. Anzitutto, compatibilmente con i costi, sarebbe interessante cercare di aumentare il peso delle ricerche qualitative: l’indagine osservante, in particolare, è un metodo di indagine ancora pionieristico in Italia, ma di sicuro successo. Il classico questionario che rileva età, reddito e genere, tende a perdere gran parte del suo potere esplicativo. Più che indagare la sola soddisfazione della visita, si potrebbero scandagliare con maggior rigore le motivazioni di visita e, soprattutto, le aspettative. Il pubblico, oggi, non consuma la cultura in quanto laureato, o in quanto ha un reddito elevato; semmai, con questi strumenti può allentare un vincolo culturale. Eppure, le motivazioni intrinseche, reali, non vengono quasi mai indagate: questa costituisce, al contrario, un’interessante direzione di ricerca.
L’aspetto probabilmente più carente in riferimento alle indagini sul pubblico museale è il fatto che, nella maggior parte dei casi, esse vengono concepite come una finalità, e non come uno strumento. In sostanza, esse dovrebbero costituire una base di conoscenza sulla quale impostare eventuali politiche di cambiamento in termini di “messa in scena” dell’offerta museale. Invece, alla pubblicazione delle indagini non segue quasi mai un resoconto degli effetti che esse hanno avuto. Il rischio che si corre, inoltre, è che i risultati vengano valutati soprattutto in relazione all’accrescimento quantitativo del pubblico, trascurando la considerazione dell’effettiva efficacia culturale delle iniziative promosse. Del resto, la multidimensionalità delle ricerche sul pubblico museale è cosa evidente. Uno degli aspetti più difficili da esaminare, ad esempio, riguarda l’analisi dell’impatto cognitivo del museo: se il museo è un’organizzazione di tipo pedagogico ed educativo, basata sulla creazione e sulla diffusione della conoscenza, allora è di grande interesse provare a misurare (e, quindi, a comprendere) quanto una visita presso un museo sia in grado di modificare – e migliorare, evidentemente – il sistema di conoscenze di un individuo. Due risultati di rilievo sono già stati raggiunti in tal senso:
1. L’istituzione del Centro di Didattica Museale di Roma Tre (CDM);
2. L’istituzione del Centro Nazionale per i Servizi Educativi del Museo e del Territorio (CSED).
Si potrebbe utilizzare come punto di partenza la riflessione maturata nell’ultimo decennio presso il Laboratorio di Pedagogia Sperimentale dell’Università degli Studi di Roma Tre. Con l’istituzione, nel 1994, di un Centro di didattica museale, il Dipartimento di Scienze dell’Educazione ha dato avvio ad un intenso programma di ricerca, raccolta dati e formazione a distanza. Docenti e collaboratori, e in particolare Emma Nardi e Benedetto Vertecchi, hanno evidenziato la necessità di interpretare la didattica museale come procedura e strategia di facilitazione dell’apprendimento.
Il Centro per i Servizi educativi del museo e del territorio (CSED), istituito nel 1998, risponde all’esigenza di promuovere il dialogo tra le agenzie formative, di ogni tipologia, ordine e grado e il sistema dei servizi educativi del Ministero per i beni e le attività culturali, per rendere le esperienze produttive per tutti, e soprattutto promuovere, valutare, sostenere e diffondere quelle che nella cultura anglosassone si definiscono “buone pratiche”.
5. Sfide future: non visitatori e primo accesso
Da ultimo, si intende portare alla luce due ulteriori nodi tematici. Il primo è rappresentato dalla necessità di incrementare la conoscenza di un universo quasi ignoto, quello dei non visitatori. É infatti estremamente utile e stimolante comprendere perchè un individuo decida di escludere la visita di un museo dalle proprie alternative di utilizzo del tempo libero. Questa riflessione si collega al rapporto che i musei instaurano con le comunità locali di riferimento, molto spesso ben al di sotto delle potenzialità di attrazione che una singola struttura potrebbe realmente esprimere. In altri termini, il forte radicamento territoriale è in effetti più di tipo storico-artistico (considerando le modalità di formazione delle collezioni del museo) che di natura sociale. E’ quindi ancora troppo spesso un rapporto deficitario, che inibisce il pieno dispiegamento della valenza pedagogica e culturale del museo.
Come sostiene Trimarchi, il vero elemento di snodo è rappresentato dalla cosiddetta “occasione di primo accesso”: l’incentivazione, attraverso politiche ad hoc potrebbe contribuire all’abbattimento delle barriere all’accesso, vere o presunte, materiali o cognitive, che fungono da deterrente per il consumatore. Pensiamo, a titolo esemplificativo, alle potenzialità offerte da interventi quali l’allargamento delle fasce orarie dei musei (aperture serali), il collegamento con il tessuto urbano e sociale (istituire collegamenti culturali multidisciplinari con la città, in modo che il museo contribuisca a consolidare il senso di appartenenza della comunità territoriale), l’informazione domestica (erogazione di informazioni sulle collezioni, sulle iniziative e sulle attività del museo direttamente al domicilio del consumatore potenziale).
Senza sottovalutare, ovviamente, quella che viene definita formazione prodromica (Sacco, P.L., Trimarchi, M): la cultura tende per tradizione a “non muoversi” dai propri luoghi, ritenendo a torto che debba essere il consumatore a compiere l’intero percorso cognitivo verso l’esperienza diretta del consumo culturale. Al contrario, una presenza più sistematica dell’offerta culturale in una serie di occasioni più o meno strutturate di apprendimento può essere un formidabile elemento di attrazione verso l’esperienza del consumo diretto, per rilanciare il consumo museale e, con esso, la partecipazione e l’inclusione sociale.
1 I vantaggi di una sociologia del consumo museale sono ben illustrati, sia pure con toni diversi, da due autori.
Bibliografia
Bollo, A., Le due facce della fruizione museale, www.fizz.it, dicembre 2002
Bourdieu, P. (2001), La Distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna
Bourdieu, P., Darbel, P. (1972), L’amore dell’arte, Guaraldi, Rimini
Jonsson, S. (1996), Accounting for improvement, Pergamon, Oxford
Sacco, P.L., Trimarchi, M., Il museo invisibile, presentato nel corso di “Museum Image”, Arezzo 12 settembre 2003
www.comune.torino.it/museiscuola/esperienze/pdf/invisibile/2_museo_invisibile.pdf
Tota, A.L. (2002), Sociologie dell’arte. Dal museo tradizionale all’arte multimediale, Carocci, Roma