La cultura oltre la crisi

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Rubrica: Forum

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Martedì 20 luglio 2010 Tafter Journal e la Fondazione Rosselli hanno organizzato una Tavola Rotonda dal titolo “La cultura oltre la crisi”. Obiettivo principale dell’incontro – primo di una serie di appuntamenti – è stato quello di discutere le possibili soluzioni per trasformare la crisi in una grande opportunità.
L’urgenza dell’attuale situazione economica spinge, infatti, a porsi una serie di interrogativi. Come messo in evidenza da Francesca Traclò, direttore della Fondazione Rosselli, se fino a qualche anno fa, era ancora possibile parlare di un problema strutturale del comparto culturale per il quale si potevano individuare delle soluzioni, in quanto esisteva un orizzonte temporale abbastanza lungo che permetteva di redigere una programmazione di ampio respiro, oggi il problema principale è diventato come affrontare l’emergenza, visto che un settore fortemente sussidiato come quello culturale ha visto ridursi drasticamente e improvvisamente i finanziamenti provenienti dallo Stato. Tale politica di tagli alla cultura si preannuncia dirompente nelle sue conseguenze, in quanto non si tratta di un intervento isolato e temporaneo, ma di un’azione che durerà almeno per i prossimi cinque anni. Partendo da uno scenario così caratterizzato, la prima domanda su cui ci piacerebbe ragionare insieme è quale scenario possiamo immaginare per il prossimo futuro, tenuto conto del fatto che i prossimi cinque anni saranno particolarmente difficili sia perché istituzioni da sempre abituate a camminare appoggiandosi a qualcuno dovranno iniziare a farlo da sole, sia perché il comparto privato non è stato nel frattempo abituato a sostenere la crescita delle organizzazioni culturali.
La seconda domanda che desideriamo rivolgervi riguarda l’erogazione dei servizi, ossia quali saranno le modalità grazie a cui chi opera nel comparto della cultura riuscirà ad offrire gli stessi prodotti e servizi, garantendo una qualità elevata ed un’offerta proporzionata alla domanda, con budget di molto inferiori. Il timore è che se si andrà verso una diminuzione dell’offerta, si corre il rischio di generare una domanda meno soddisfatta e meno propensa ad investire il proprio tempo libero in cultura.
La terza domanda ha a che fare con il tema della disoccupazione, che nel settore culturale rischia di amplificarsi ulteriormente a causa dei numerosi lavoratori precari che vi partecipano. In assenza di ammortizzatori sociali diviene quasi impossibile riuscire a garantire una continuità lavorativa e la nostra paura più grande è che le istituzioni culturali siano del tutto impreparate ad affrontare questa emergenza.
Un altro aspetto su cui vogliamo invitarvi a riflettere è il rapporto tra cultura e innovazione. Esiste oggi la convinzione, largamente condivisa, che l’innovazione sia l’unico asset capace di determinare un cambiamento strutturale del settore culturale. Ma l’innovazione nel nostro Paese continua a essere un driver guidato soprattutto da tecnici, che difficilmente riesce ad uscire dai laboratori di ricerca e sviluppo e a diventare parte integrante dell’offerta culturale. Al contrario di quanto accade negli altri Paesi, in Italia il costo dell’innovazione continua ad essere elevato e questo scoraggia le aziende culturali ad intraprendere percorsi innovativi. Cosa intendiamo, quindi, quando parliamo di innovazione in campo culturale e in che modo sarà possibile ampliare la gamma dei servizi offerti, nella distribuzione, nella promozione e nella divulgazione culturale grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie?
Infine desideriamo affrontare con voi le possibili declinazioni del binomio cultura-impresa. Posto che le organizzazioni culturali stentano, ancora oggi, ad essere gestite secondo una logica imprenditoriale, il ragionamento che ci piacerebbe fare con voi è come fare, quali strade intraprendere affinché gli operatori del settore culturale siano sempre più imprese, affinché le realtà attive nel comparto culturale diventino organizzazioni capaci di ragionare secondo logiche di mercato, e di trovare valore e sostenibilità fuori dal meccanismo sussidiato. Quali modelli innovativi possiamo immaginare per stimolare una maggiore collaborazione tra i privati e la cultura? E quale deve essere il rapporto tra pubblico e privato? Tutto ciò senza dimenticare che il fine ultimo della cultura non è produrre denaro, ma benefici intangibili quali il senso di appartenenza alla comunità locale, la qualità della vita urbana, la conoscenza delle proprie radici, la socializzazione, la tolleranza, la cooperazione.


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20 Commenti

  1. 22 Luglio 2010 15:59

    La cosa veramente interessante che sta accadendo è la rivoluzione digitale. Tutto il mondo dell’editoria, il modo di fare marketing e comunicazione online stanno cambiando completamente le regole e i modelli di business, così come tutto il settore delle piccole imprese: in questo senso, penso che il settore culturale dovrebbe un po’ “sbloccarsi”. C’è quindi la possibilità, dal punto di vista del mercato, di passare dalle parole ai bisogni. Questa è una cosa che molti della classe imprenditoriale in Italia non conoscono. Google non è solo un motore di ricerca, ma una suite completa gratuita a disposizione di tutte le grandi aziende dove si possono fare ricerche di mercato, capire cosa la gente vuole, con che parole cerca, con che sequenze e in quali settori. Non ha senso andare dalle grandi società informatiche che non forniscono strumenti, esistono altri luoghi per imparare.

    - Andrea Genovese – fondatore di 7th Floor
  2. 22 Luglio 2010 16:06

    La logica che guida l’unione del servizio di biglietteria e di didattica delle nuove gare bandite dal MiBAC è che la didattica museale viene vista come uno strumento di comunicazione del museo e quindi come strumento per approcciare il pubblico. La didattica, a mio avviso, deve seguire quelle strade e procedure di collegamento attraverso i servizi educativi del museo, in modo da mantenere contenuti corretti e condivisi e costituire una realtà sostanzialmente diversa dall’azione comunicativa operata autonomamente all’interno dei musei da professionisti privati esterni (associazioni, guide turistiche). Le criticità sono state dettate dai cambiamenti all’interno del mondo della scuola, essendo il nostro un pubblico scolare. Ritengo che mantenere alta la domanda sia difficile e su questo noi abbiamo lavorato molto, focalizzando l’attenzione sugli aspetti relazionali, di fiducia con gli insegnanti all’interno delle scuole, riuscendo così a superare una crisi che si è sentita molto in alcuni luoghi (forse un po’ meno qui a Roma). Per quello che riguarda gli aspetti innovativi, non sono tantissimi perché il nostro pubblico è tradizionale: tutto ciò che mettiamo a disposizione sono quelle tecnologie che consentano di attivare un vivace canale di comunicazione con il nostro pubblico.

    - Francesco Cochetti- Pierreci
  3. 22 Luglio 2010 16:12

    Le difficoltà, nel progetto di Scampia, sono state moltissime. Ho fatto il passaggio di consegna e l’innovatività dell’azione risiedeva nel rischio di investire su venti persone, ragazzi appena maggiorenni, alcuni ancora minorenni, molti provenienti dal campo Rom di Scampia, dotando loro di borse di studio per tecnici attori e organizzatori, ovvero le figure fondamentali per un teatro. Solo cinque di loro non hanno portato a compimento il progetto, per motivi complicati: alcuni sono tornati nel loro territorio di origine, altri hanno fatto altri percorsi. Credo che il progetto abbia funzionato: la cosa fondamentale è che gli attori fanno gli attori, i tecnici fanno i tecnici, gli organizzatori si occupano di organizzazione teatrale anche attraverso degli stage fuori Napoli, dove vengono chiamati per delle collaborazioni. La formazione, che è stata accusata di essere “eccentrica”, sta dando risultati. Questo era il carattere innovativo del progetto soprattutto perché non produceva numeri enormi (20 borse di studio), e non aveva la visibilità che normalmente ha una programmazione teatrale. Il grande risultato è stato lavorare con delle persone “prendendole per mano”, portandoli a teatro, vedendo come reagivano a uno spettacolo e se c’era una reazione su cui impostare un percorso di formazione.

    - Debora Pietrobono – organizzatrice teatrale
  4. 22 Luglio 2010 16:17

    In questi anni, ho sviluppato un’attività prevalente di video-maker per progetti di sviluppo locale facendo tre tipi di prodotto che interessano il territorio. Possono essere video di animazione di supporto alla mia attività, ovvero, io stesso mi occupo della fase di progettazione, del montaggio, della costruzione e del coinvolgimento delle persone, costruendo su queste una possibile linea di fuga. Oppure, realizzo strumenti di animazione e ricerca del territorio, che spesso hanno come committenti università o enti di ricerca, o anche prodotti che riguardano i contenuti della comunicazione (story telling), che riguardano sia imprese che territorio, entrambi interessati ad indagare e costruire un racconto del proprio passato e dei legami che ha la propria impresa col territorio. Questi strumenti funzionano abbastanza bene e non ho riscontrato punti di criticità in questo periodo. La vera innovazione è stata la capacità di saper costruire una possibilità di distribuzione per ognuno di questi video. Il problema che riscontro è che se l’ente pubblico locale improvvisamente si disinteressa completamente delle politiche di promozione del patrimonio culturale, allora è molto probabile che anche i privati abbiano molto meno interesse: venendo meno l’interesse pubblico molti saranno disincentivati.

    - Filippo Tantillo- ricercatore Isfol
  5. 22 Luglio 2010 16:28

    Essere indipendenti significa essere interdipendenti, cioè non significa essere più liberi: un’arma a doppio taglio, che può avere un aspetto meraviglioso e uno altrettanto rischioso, perché significa dover stringere tante mani per tenere in piedi un progetto. Nel mio settore, l’arte contemporanea no profit, non esisteva e non esiste tuttora una forma di sostenibilità. Di tutta questa esperienza, il lato buono è che rispetto a settori che hanno vissuto dei tagli, noi non li abbiamo mai avuti perché non c’era sostegno. Per la mia esperienza, questo spinge a doversi inventare nuove modalità operative basate sull’interdipendenza, dove il settore pubblico, quello privato e il territorio sono macro strutture che necessariamente devono interagire. Secondo me esiste anche un problema di formazione: gli studenti escono dagli istituti d’arte senza aver visto quasi nulla di arte contemporanea e senza averne fatto esperienza diretta. Ebbene, l’arte contemporanea, forse come sua caratteristica principale, ha la felicità e la facilità di essere un luogo di traduzione, dove essendo messa in scena la contemporaneità, tante altre arti si incontrano. Diventa uno strumento buono per la didattica e la formazione, anche per la didattica all’interno dei musei. È un linguaggio che costa poco perché tanta arte contemporanea si lavora sull’immateriale, sul racconto, sulla performance, sull’esperienza, perché non siamo confederati in qualsiasi sindacato: questo è un male da un lato ma è qualcosa che possiamo mettere a servizio delle altre discipline.

    - Cecilia Canziani- curatrice e storica dell’arte
  6. 22 Luglio 2010 16:37

    Come approccio all’impresa creativa, Kublai propone di cercare con ogni tipo di idea un modello di sostenibilità indipendente dalle risorse pubbliche e su cui il tema fondi e risorse sia secondario rispetto a tutti gli altri. Noi combattiamo un tipo di atteggiamento che riscontriamo in tutta Italia, quello di cercare prima le risorse e poi di mettere a punto l’idea. Invitiamo, invece, a rendere pubblica sulla piattaforma, sotto forma di social network, l’idea, che aiuta le interazioni. Nonostante le difficoltà di finanziamenti altalenanti in questi due anni, siamo riusciti a organizzare il servizio. La scelta fondamentale sulla comunicazione è quella di essere in rete ovunque, usando tutte le piattaforme esistenti, utilizzando quello che è già disponibile gratuitamente. Già con questo si accede ad altre reti e grazie a questo tipo di passaparola la comunità è cresciuta. È un progetto molto sperimentale, non c’è un’altra iniziativa pubblica che si rivolge a questo tipo di target, che cerca di usare un linguaggio diverso, che non usa la burocrazia. Quindi di conseguenza si sperimentano continuamente modelli e sentiamo bisogno di andare incontro a esigenze che ci si presentano davanti in modo diversi.

    - Nicola Salvi – Kublai
  7. 22 Luglio 2010 16:39

    Per noi la crisi ha comporato un vantaggio straordinario e non è retorica. La necessità di fare sistema ha fatto sì che un ente nato per fare sistema, se preparato per recepire la sfida potesse farlo veramente. Il nostro obbiettivo, ora, è quello di costituire sei distretti culturali territoriali, cercando di interagire a tutti i livelli con tutte le fasce di interlocutori possibili. Quest’anno come Fondazione abbiamo dato vita a un master plan di 1300 pagine in cui, area per area, tutti i direttori dei musei sono stati chiamati a fare la programmazione per il 2011 dividendo gli investimenti delle attività e cercando economie di scala facendo in modo che all’interno della stessa area più musei lavorassero insieme per realizzare progetti comuni. Tutto ciò ha portato a uno strumento di piano di programmazione unitario a livello territoriale, un caso questo abbastanza unico nel nostro Paese. Tutto ciò ci sta dando la possibilità di investire sul futuro e di essere credibili nei confronti delle imprese.

    - Luigi di Corato – direttore della Fondazione Musei Civici Senesi
  8. 22 Luglio 2010 16:41

    Nell’ultimo anno ho vissuto un’esperienza molto formativa all’interno dell’ultimo consiglio di amministrazione dell’ETI. Nel caso dell’ETI la certezza matematica di avere un contributo consentiva una sopravvivenza inerziale. La decisione del ministero dell’economia di sopprimere l’ente, inconsapevolmente ha dato una bella lezione all’incapacità di programmazione. E’ stata un’esperienza formativa perché mi ha insegnato molte cose sotto il profilo di quello che avrebbe potuto essere una riforma. Secondo me il rapporto con il territorio dovrebbe essere il punto da cui ripartire, perché è vero che è stato soppresso l’ente ma le funzioni di promozione, di produzione, di formazione, di gestione dei teatri esistono ancora.

    - Bruno Zambardino – ricercatore di economia dello spettacolo
  9. 22 Luglio 2010 16:41

    La complessità della mia attività di Soprintendente è come quella di un “padre di famiglia”, che oltre ad occuparsi di tutela e valorizzazione, deve anche assumere il ruolo di “manager” per la gestione ordinaria e del personale. Il fatto di essere in una regione come la Calabria, mi ha spronato ancora di più, perché ho trovato una situazione non facile da gestire. Per esempio, la digitalizzazione della pubblica amministrazione per me è ancora un’utopia, anche se il vero problema sono i tagli continui che rendono difficile l’attività di tutela sul territorio. Spetta a me decidere chi deve fare cosa, e decidere all’interno di quello che va tutelato cosa è più importante. Nonostante la crisi, ho riscontrato un notevole interesse da parte del pubblico, soprattutto in occasioni come quella della Notte dei Musei, durante la quale siamo riusciti, in una realtà come Cosenza, a portare alla Galleria Nazionale 1500 persone, offrendo un mix di eventi in cui gli spazi contemporanei sono stati animati da artisti e musicisti della realtà locale.

    - Fabio De Chirico- Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria
  10. 22 Luglio 2010 16:44

    Questo momento secondo me è formidabile, è il momento dello sparigliamento delle carte, è il momento in cui tutti i pesi specifici si ridefiniscono, è il momento in cui si crea l’ecosistema in un modo diverso da quello che noi immaginiamo. L’innovazione è per me innanzitutto interpretativa – prima ancora dei processi – e tecnologica. Io sono molto fiducioso. Mi sembra un momento sano, poi chiaro che la crisi implica per tutto il Paese dei tagli. Tutti i crediti e le opportunità stanno calando, ma un po’ di dieta può servire a mettersi in sesto con la salute, eliminando eccessi di grasso fastidiosi che avevamo accumulato in passato. E’ giunto il momento di creare delle alleanze strategiche e quindi ragionare con conveniente e intelligente umiltà, visto che un’intelligenza collettiva, come gli scienziati riconoscono, produce un risultato molto più efficace del più intelligente componente del gruppo che l’ha prodotta.

    - Michele Trimarchi – esperto di economia della cultura
  11. 22 Luglio 2010 16:46

    Per me la crisi è partita molto prima di quella che tutti conosciamo. In termini d’innovazione dei processi, forse la cosa più significativa che ho cercato di fare in questi due anni di difficoltà è stata quella di “programmare il fallimento” dell’esperienza Zone Attive e del mio lavoro. Al di là delle attività, è stato per me il percorso e il progetto più significativo su cui ho lavorato perché ritengo che non sia possibile all’interno di un’amministrazione pubblica lavorare con meccanismi che accettano passivamente la precarietà delle persone con cui si collabora. Per me questo ha voluto dire: garantire futuro lavorativo alle persone che hanno lavorato con me in quegli anni; cercare di dare una possibilità di sviluppo ai progetti indipendentemente da Zone Attive; arrivare alla fine del percorso con un’alternativa. Credo che dal punto di vista dell’innovazione dei processi, ho valutato che lo spazio per continuare con questo progetto non ci fosse più per tanti motivi e ho cercato con la massima precisione di programmare una fine possibile che salvaguardasse un po’ il portato storico di questa esperienza. Quello che rimarrà dopo 11 anni sarà sicuramente la qualità di tanti professionisti che abbiamo cresciuto dentro a Zone Attive. Mi auguro che rimarrà il tentativo portato avanti negli anni di utilizzare gli eventi come elemento per cambiare dinamiche di politica culturale in città e fare, attraverso questi, un po’ più di “sistema”.

    - Emiliano Paoletti – direttore Zone Attive
  12. 22 Luglio 2010 16:49

    All’inizio degli anni ’90, quando è nata la nostra società, l’editoria era sacralizzata, autocompiacente, gli editori ti guardavano con diffidenza sistematica, c’era una divisione assoluta, un’incapacità di unire le forze che poi invece è quello che abbiamo scoperto essere la nostra forza e che è stata la vera rivoluzione. Fare l’editore non è somministrare dall’alto verso il basso cultura necessaria a salvarti dal peccato originale dell’ignoranza. Gli editori che si lamentano nascondono poi il fatto che ogni editore è responsabile del successo oppure dell’insuccesso della propria casa editrice. Credo che i corsi di editoria che abbiamo organizzato in tutta Italia, come anche i master universitari e l’esperienza di tutoraggio attraverso cui abbiamo insegnato ai giovani editori come ci si finanzia, abbiano creato un circolo virtuoso eccezionale. Io vedo solo guerre di posizione, gente che ringhia per conservare non per conquistare qualcosa. Unire le forze secondo me è l’unico modo per creare un circolo virtuoso virale, contagioso. Non credo che l’indipendenza di per sé sia un valore, perché se ci fossero delle alleanze forti tra editori indipendenti potrebbe crollare il mito della proprietà perché potrebbe essere, invece, una bella unione di forze che ti permette di essere libero veramente, cioè di avere più risorse per poter giocare una partita non solo in zona retrocessione ma arrivando a conquistare altri risultati.

    - Daniele Di Gennaro – co-fondatore di minimum fax
  13. 22 Luglio 2010 16:50

    Per certi versi, la nostra struttura interna si era già predisposta in precedenza ad affrontare il momento critico attuale, perché un network come il nostro consente che le forze si distribuiscano su diversi canali, con una forza di circa 400 collaboratori diffusi su tutto il territorio. Questa situazione ci ha dato un’elasticità che ci ha aiutato ad affrontare il momento di difficoltà, anche se tutti ne abbiamo risentito. Di fronte ai tagli e a una crisi del settore privato, nostro principale interlocutore, ritengo che la domanda continua a crescere fortemente. E’ evidentemente il comparto politico non è attrezzato a percepire l’investimento culturale come un investimento produttivo. Ne segue che forse, a mio avviso, dovremmo chiederci se anche noi, come editoria, sbagliamo qualcosa nel non riuscire a comunicare la portata di questo valore.

    - Massimo Mattioli- Exibart
  14. 22 Luglio 2010 16:54

    Grazie alla nostra struttura internazionale, la recessione l’abbiamo fiutata attraverso le sedi anglosassoni dell’azienda, operando, di conseguenza, per una ristrutturazione della nostra struttura. Ora, a differenza delle altre sedi all’estero, dove operiamo tramite fondi privati e sponsorizzazioni vere e proprie, in Italia noi ci assumiamo il rischio imprenditoriale di tutti progetti per garantire un margine a copertura dei costi. Nello specifico, la crisi l’abbiamo affrontata diversificando il nostro lavoro di business da un piano B to B, con cui siamo nati 20 anni fa, a un B to C, cercando di abbracciare il fruitore finale di un museo o una mostra e accompagnarlo a 360° nella esperienza culturale, non solo durante la visita, ma anche prima e post visita. Nello specifico, abbiamo cercato di capire qual è la segmentazione dei visitatori che non riusciamo a raggiungere, quindi identificare il nuovo target di visitatori da intercettare e le nuove piattaforme attraverso cui proporre nuovi contenuti. In Italia, quello che riscontriamo è un mercato che si accontenta di quello che offre il mercato: i clienti si auto-referenziano, quindi non è facile proporre delle innovazioni tecnologiche come facciamo altrove in Europa o nel mondo e la recessione ha accentuato questo gap. Dal un lato, il cliente museo vuole un servito sicuro senza rischiare, dall’altro c’è un ventaglio di servizi che potrebbero portare concreti vantaggi.

    - Jelena Jovanovic- Sales Manager, Antenna Audio Italia srl
  15. 22 Luglio 2010 16:56

    Il federalismo fiscale, per me, può essere un’opportunità per certi aspetti. Pur non essendo un grande esperto, se si va verso il federalismo fiscale, gli interlocutori dei finanziamenti potrebbero diventare le regioni, comportando in alcuni casi l’adozione di azioni di lobby che spingono verso soluzioni alla britannica, per cui gli investimenti in cultura diventano detraibili dall’imponibile. La domanda non coincide con l’offerta e la tecnologia tende a colmare questo gap. Al di là dei modelli innovativi aziendali, esiste anche tutto un mercato “free” che riesce ad inseguire più velocemente le richieste della domanda che sono in primis richieste di intrattenimento, edutainment, e per ultimo soddisfazione dei bisogni culturali.

    - Andrea Pugliese – scrittore, esperto di comunicazione e sviluppo locale
  16. 22 Luglio 2010 16:59

    Secondo me i tagli sarebbero anche giusti, il problema è di come vengono fatti. Se un comune non fa i dovuti controlli non è in grado di dire se un’istituzione sia efficiente o meno, e quando c’è da tagliare taglia a tutti il 30%. Io sono un po’ distante dall’idea che gli investimenti pubblici non siano efficaci: il problema nella cultura – ma anche in altri settori – è che l’investimento pubblico ha dei tempi lunghissimi. Secondo me l’assenza di una vera strategia politica nella governance fa sì che noi dobbiamo fare sia le strategie che i percorsi relativi a quelle strategie. Quindi cosa succede, ad esempio? Succede che l’Auditorium fa tutto da eventi culturali a mostre. Dopo di che il senso non esiste più se tu apri a 200 metri il MAXXI e fai le mostre. Allora ci dovrebbe essere una holding culturale che dica l’Auditorium fa eventi, il MAXXI fa le mostre, il Pala Expo fa un’altra cosa, Zone Attive fa un’altra cosa ancora, perché è giusto che tutti sappiano fare tutto, ma i risparmi dei costi si ottengono grazie alla specializzazione. E se hai la possibilità di risparmiare puoi fare investimenti ed essere preparato ad affrontare il mercato, e puoi creare occupazione.

    - Gabriele Coppa – Fondazione Musica per Roma
  17. 22 Luglio 2010 17:00

    In qualità di regista e produttore indipendente, quello che ho sperimentato durante i miei quindici anni di attività lavorativa è che il contenuto non interessa quasi a nessuno, soprattutto se tratti temi connotati da una forte valenza sociale. Come casa di produzione ci siamo ritrovati due anni fa a dover immaginare un possibile scenario di sviluppo, e ci siamo resi conto che l’unica possibilità per continuare ad esistere era iniziare a collaborare con altre realtà. Così abbiamo costituito una rete, formata da otto società, che ci ha dato la possibilità di ottenere un finanziamento pubblico e di ampliare il nostro mercato di riferimento, attraverso la creazione di una piattaforma on line di video on demand. Io credo, quindi, che l’unica soluzione sia unirsi e cercare di trovare dei canali di distribuzione alternativi a quelli tradizionali.

    - Monica Repetto – casa di produzione “Deriva Film”
  18. 22 Luglio 2010 17:02

    Il documentario in Italia è un genere espressivo poco valorizzato dal punto di vista distributivo, non perché esistano delle perle nella produzione italiana di documentari che non trovano la luce, ma perché non esiste un’adeguata attenzione al pubblico potenziale. Secondo me in questa enorme omologazione di contenuti che oggi sperimentiamo, il documentario produce interesse ed uno sguardo critico. Quindi un pubblico esiste ma non esiste una distribuzione per ragioni di ordine economico. Gli esercenti, ad esempio, si lamentano del fatto che non sono padroni della loro programmazione perché sono vincolati a doppio filo al monopolio della distribuzione. Un altro argomento per me importante è il rapporto cultura politica, perché mi pare che non siano per nulla chiari i parametri usati per misurare la ricaduta di un progetto culturale sul territorio, né in termini economici né in termini sociali. Secondo me c’è un’enorme nebulosa che non permette di prendere le decisioni necessarie, ma solo di utilizzare il comparto culturale in termini personalistici oppure per fini di comunicazione come strumento di ascesa professionale.

    - Riccardo Biadene – documentarista
  19. 22 Luglio 2010 17:03

    Secondo me quando la politica ha iniziato ad indicare delle categorie, il settore culturale ha subito un collasso perché le proposte provenienti dal mondo della cultura sono dettate da una necessità creativa che non corrisponde a delle categorie immaginate dall’esterno. Io credo che oggi non ci sia una grande attenzione ai comportamenti individuali e ai comportamenti creativi, e forse dovremmo ricominciare a pensare che anche il management dovrebbe guardare all’indipendenza, creando e stimolando le prospettive, intercettando le proposte artistiche. Credo che dobbiamo ritornare fortemente a questa esigenza/necessità di guardare la spinta creativa. Quello che noto è che da una parte la politica ha uno sguardo brevissimo sulla redditività della cultura: non è vero che la cultura deve provvedere a dei redditi immediati, la redditività della cultura ha una ricaduta a lunghissima scadenza, quindi la bassa frequenza di lettura della politica non deve indurre ad un equivoco nell’investimento. Dall’altra parte, invece, esiste una deficienza, una mancanza incredibile in campo formativo. Se non si inverte questo sistema io credo che ci sarà una involuzione del tessuto sociale del Paese.

    - Francesco Saponaro – regista teatrale
  20. 8 Agosto 2010 23:42

    Il problema essenziale, in materia di politiche culturali ed economie mediali, in Italia, resta lo stesso da decenni: deficit informativo profondo, sia da parte dei “policy maker” pubblici, sia da parte degli stessi operatori privati. Tutto il resto – ribadisco: tutto – viene dopo. Senza dati ed analisi adeguate, è impossibile disegnare una politica culturale, che sia strategica e programmatica, ed all’altezza delle migliori pratiche di Paesi come il Regno Unito e la Francia e la Germania. Da circa un quarto di secolo, opero come consulente specializzato, e sono costretto ad osservare come l’evoluzione delle conoscenze, in Italia, sia stata modestissima. A poco è servita l’attività della stessa Associazione per l’Economia della Cultura, che pure sembra aver perso la quasi totalità della propria capacità analitica e propositiva; la relazione annuale dello Iem è utile, ma non basta, ed altresì dicasi del rapporto annuale di Federculture. E si pensi allo spreco di risorse (alla dispersione di energie) tra Confindustria Cultura e Confindustria Servizi Innovativi, in materia di ricerche sulla cultura ed i media… E che dire, infine, della solita Relazione annuale sul Fondo Unico dello Spettacolo, che ha registrato un salto di qualità con Veltroni e Melandri, per poi fermarsi, statica nell’evoluzione metodologica, restando peraltro diffusa ancora a livello semi-clandestino? La quantità di domande poste dal forum promosso dalla Fondazione Rosselli e la qualità delle stesse rendono arduo rispondere sinteticamente. Nessuno potrà comunque fornire risposte serie, se non si riuscirà a disporre di informazioni adeguate: vale, esemplificativamente, per i famosi 232 enti culturali “inutili”… vale per la fragile riforma degli enti lirici promossa dal Ministro Bondi in assenza di dati sufficienti ad un “buon governo”… Credo che lo sforzo delle istituzioni, degli operatori del settore, delle associazioni, delle strutture specializzate nella ricerca dovrebbe essere concentrato nella promozione di una prima grande inedita ricerca, a 360 gradi (dai beni culturali alle telecomunicazioni), sulle politiche e le economie mediali in Italia, con un approccio innovativo, coraggioso, multidisciplinare.

    - Angelo Zaccone Teodosi – presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale (IsICult)

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